ho trovato il suo numero di internet. Ho un problema di acne, ho fatto i dosaggi ormonali ed è tutto a posto. Il ginecologo mi ha detto che potrebbe essere una questione alimentare. Mi può aiutare?”
L’acne è una delle condizioni dermatologiche più comuni nel mondo1. Siamo abituati a pensare che l’acne sia un problema adolescenziale. In effetti, la prevalenza è più alta negli adolescenti e nei giovani adulti e diminuisce dopo i 30 anni. Tuttavia, l’incidenza sopra i 40 anni è in aumento soprattutto nelle donne2.
La comprensione della patogenesi dell’acne è ancora in evoluzione tuttavia si sa che i fattori che influiscono sono molteplici e tra questi:
-le influenze genetiche,
-ormonali,
-infiammatorie,
-ambientali.
Data la sua implicazione in molti di questi fattori non è difficile pensare che la dieta possa avere un effetto benefico.
Non dimentichiamo che mangiamo dalle tre alle cinque volte al giorno ed è impossibile pensare che quello che ingeriamo in qualche modo non influenzi il nostro stato di salute.
Vediamo insieme a cosa fare attenzione:
Carico glicemico del pasto (ecco un articolo che spiega cos’è il carico glicemico e perché è più importante dell’indice glicemico https://specialistanutrizionista.it/blog/indice-o-carico-glicemico/). Diversi studi hanno dimostrato che individui con acne che consumano diete a basso carico glicemico hanno lesioni da acne ridotte rispetto agli individui con diete ad alto carico glicemico. Infatti,una dieta a basso indice glicemico riduce l’indice di androgeni liberi e aumenta la proteina-3 che lega il fattore di crescita dell’insulina e riduce anche i livelli di IGF-1, che è implicato nella produzione di sebo e nell’occlusione follicolare3.
A volte mi viene detto: “Dott.ssa ho anche eliminato tutto il cioccolato dall’alimentazione”.
Il cioccolato è sempre stato considerato un fattore che può contribuire all’esacerbazione dell’acne, ma esiste una quantità molto limitata di prove a sostegno del suo impatto negativo sulla pelle. Ovviamente, come sempre l’equilibrio è la parola d’ordine per cui tanto dipende anche dalla quantità di cioccolato che si è abituati a consumare.
In alcuni casi, una riduzione del consumo potrebbe avere effetti benefici4.
I latticini5. Le proteine del siero sono responsabili degli effetti insulinotropici del latte e possono contribuire allo sviluppo dell’acne. E’ stato dimostrato che la caseina stimola l’IGF-1. Questa potrebbe essere una spiegazione del perché coloro che assumono integratori derivati da siero di latte, pratica comune nei centri fitness e nelle palestre, vedono un inizio o un aggravamento dell’acne.
Consumo di acidi grassi omega-3 e acido γ-linoleico6. Gli studi dimostrano che gli individui con acne beneficiano di diete a base di pesce e oli sani, frutta secca e semi aumentando così l’assunzione di acidi grassi omega-3 e omega-6. È stato dimostrato che gli acidi grassi Omega-3 riducono l’IGF-1 e inibiscono anche la sintesi del leucotriene infiammatorio B4, che a sua volta riduce le lesioni infiammatorie dell’acne. Diversi studi mostrano come l’aggiunta di un integratore di acidi grassi omega-3 o di un integratore di acido γ-linoleico riduca significativamente il numero di lesioni infiammatorie e non infiammatorie.
Probiotici7 in individui con acne presentano risultati promettenti; sono necessari ulteriori studi sugli effetti dei probiotici sull’acne per supportare i risultati di questi primi studi. Tuttavia, è stato dimostrato che la somministrazione concomitante di una miscela probiotica, tra cui Lactobacillus casei, Lactobacillus bulgaricus e Streptococcus thermophilus, e acidi grassi, aumenta i livelli ematici di acidi grassi antinfiammatori. Inoltre, sia nell’acne che nella disbiosi intestinale, è stata osservata un’aumentata espressione della sostanza P che può innescare un aumento dei mediatori proinfiammatori come l’interleuchina-6 e il fattore di necrosi tumorale-α, entrambi implicati anche nella patogenesi dell’acne.
Le specie reattive dell’ossigeno prodotte dai neutrofili partecipano alla progressione infiammatoria dell’acne. Le specie reattive dell’ossigeno vengono normalmente rimosse da antiossidanti cellulari come la glucosio-6-fosfato deidrogenasi e la catalasi, entrambe presenti in piccole quantità nei pazienti con acne. L’utilizzo di integratori antiossidanti posso essere quindi una buona strategia coadiuvante nel trattamento dell’acne8.
Selenio8. Nei pazienti con acne sono stati documentati bassi livelli di selenio nel sangue. Poiché l’attività dell’enzima glutatione perossidasi dipende dal selenio è possibile che anche l’integrazione di selenio possa essere utile nell’acne.
Zinco9. Lo zinco è un micronutriente essenziale per lo sviluppo e il funzionamento della pelle umana. È batteriostatico, inibisce la chemiotassi e riduce la produzione di citochine pro-infiammatorie e del fattore di necrosi tumorale α (TNF-α). Come dico sempre è importantissimo rivolgersi ad un professionista e non utilizzare gli integratori a caso. Anche gli integratori infatti possono dare effetti collaterali. Per esempio, l’integrazione di zinco può portare a diversi effetti collaterali gastrointestinali che possono essere ridotti consumando zinco direttamente dopo i pasti. Inoltre, poiché lo zinco riduce l’assorbimento del rame, è importante associare l’integrazione di zinco a quella di rame.
Vitamina A10. La vitamina A è un gruppo di composti che si sono dimostrati efficaci nel trattamento dell’acne. In questo caso è essenziale bilanciare bene l’alimentazione in modo da consentire all’organismo di assorbire questa importante vitamina. Si trova principalmente nelle verdure di colore rosso e nei prodotti di origine animale. E’ una vitamina liposolubile sensibile al calore. Da qui l’importanza di mangiare frutta e verdura cruda in caso di acne.
Il grande problema dell’alimentazione è che gli effetti di un’alimentazione scorretta non sono facilmente riconducibili ad essa. Capita spesso di sentirmi dire: “ Non credo sia una questione alimentare. Ho sempre mangiato così e questo problema mi è comparso nel tempo.”
Qualcuno diceva:
“Il cibo che mangi può essere o la più sana e potente forma di medicina o la più lenta forma di veleno”. (Ann Wigmore)
Ed è proprio così… ed è un veleno potentissimo perchè non ti fa ammalare istantaneamente ma il suo lavoro è lento e profondo.
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Come ho scritto tuttavia l’assunzione di cibo non è controllata solo da circuito omeostatico ma anche dal centro di ricompensa e gratificazione che è un circuito presente nel nostro cervello responsabile della motivazione, dell’apprendimento, e delle emozioni positive, in particolare quelle che coinvolgono il piacere come componente fondamentale tra cui anche il piacere del cibo.
E a complicare le cose si aggiunge il fatto che questi due meccanismi, circuito omeostatico e di ricompensa e gratificazione, si influenzano tra loro.
Il cibo è una potente ricompensa naturale e l’interazione tra umore, stato emotivo e comportamenti alimentari è complessa. Gli individui possono regolare le loro emozioni e l’umore anche attraverso le scelte alimentari e le quantità di cibo assunte e viceversa1.
Ovviamente, mi occupo della parte alimentare per cui di come il cibo possa alterare il nostro umore e le nostre emozioni tuttavia capite quanto sia importante avere consapevolezza delle nostre emozioni e quanto il lavoro integrato con la figura di uno psicoterapeuta sia essenziale in alcune situazioni (da qui la mia forte volontà di costruire, insieme alle mie colleghe, un centro integrato di psicologia e nutrizione: www.psi-ko.it).
D’altronde si sa che negli esseri umani, il comportamento alimentare è complesso e può essere influenzato anche dalle emozioni.
Emozioni specifiche come rabbia, paura, tristezza e gioia, così come anche altri stati d’animo possono influenzare la risposta alimentare sia in termini di motivazione a mangiare o di scelta di che tipo di cibo mangiare, sia in termini di masticazione, quantità, metabolismo e digestione2,3.
Ogni persona ha sperimentato almeno una volta nella vita un cambiamento nell’assunzione di cibo in risposta allo stress emotivo (in media il 30% un aumento e del 48% una diminuzione dell’appetito).
Non a caso, gli effetti delle emozioni sull’assunzione di cibo sono ampiamente studiati tuttavia a causa della loro variabilità rimane difficile prevedere come un’emozione può influire sul cibo in un dato gruppo di persone.
Le emozioni possono aumentare l’assunzione di cibo in un gruppo di persone oppure diminuire l’assunzione di cibo un altro gruppo e non solo…emozioni diverse possono aumentare o diminuire il consumo di cibo nello stesso gruppo di individui.
Ad esempio, la noia potrebbe essere associata ad un aumento dell’appetito, ma la tristezza ad una diminuzione4.
Per cui parlare di come le emozioni influenzino l’assunzione di cibo e viceversa è molto complicato perciò torniamo a parlare della componente biologica e alimentare.
Sebbene ci siano molti sistemi neurotrasmettitori all’interno della regione del cervello responsabile del sistema di ricompensa e gratificazione, gli studi sugli effetti gratificanti del cibo si sono concentrati su tre sistemi di segnale, ossia gli oppioidi endogeni5, la dopamina7 e la serotonina.
Vediamo come questi neurotrasmettitori siano in grado di modulare l’assunzione di cibo.
E’ stato visto che una proprietà importante degli oppiacei è quella di rafforzare il comportamento.
Infatti si è visto che l’iniezione sistemica di morfina provoca una maggiore assunzione di cibo nei ratti.
Analizzando il tipo di cibo scelto sotto l’influenza degli oppiacei, si è riscontrato che la morfina stimola l’ingestione di alimenti ricchi di zuccheri e grassi6.
Un altro neurotrasmettitore che sembra essere coinvolto nella risposta di ricompensa del cibo è la dopamina7. Il consumo di cibo, alcuni tipi più e altri meno, porta alla produzione di dopamina, che a sua volta attiva i centri di ricompensa e piacere nel cervello.
Un individuo mangerà ripetutamente un alimento particolare per provare la sensazione positiva di gratificazione8.
Questo tipo di comportamento ripetitivo di assunzione di cibo porta all’attivazione di percorsi di ricompensa al livello del cervello che alla fine prevalgono sugli altri segnali di sazietà e fame. Quindi, l’abitudine di gratificazione attraverso un determinato cibo porta all’eccesso di quel cibo.
È interessante notare che i cibi altamente appetibili attivano le stesse regioni di ricompensa e piacere nel cervello che vengono attivate dalle droghe, suggerendo che alcuni tipi di cibi possano attivare un meccanismo di dipendenza che può portare poi a eccesso di cibo e obesità.
D’altronde, si sa che la dopamina, che attiva direttamente i centri di ricompensa e piacere, influenza sia l’umore che l’assunzione di cibo. Insomma è lei in parte la responsabile del legame tra psicologia e comportamento alimentare.
È stato scoperto, inoltre, che la leptina (ormone responsabile della diminuizione della sensazione della fame e coinvolto nel circuito omeostatico) riduce il rilascio di dopamina durante l’alimentazione, suggerendo che la leptina sopprime la ricompensa indotta dall’alimentazione.
Vedremo successivamente tuttavia come questo segnale venga poi by-passato determinando un aumentato consumo di cibo.
Un terzo neurotrasmettitore che può contribuire alla regolazione dell’appetito è la serotonina. Diverse osservazioni suggeriscono che la serotonina possa essere coinvolta nel controllo dell’assunzione di cibo come segnale di sazietà9.
I livelli di serotonina cerebrale sono influenzati da molti fattori, inclusi i livelli circolanti di triptofano e alcuni macronutrienti10.
Nell’ipotalamo, la serotonina inibisce l’espressione del neuropeptide Y (la cui funzione è quella di inibire le contrazioni intestinali, le secrezioni gastriche e intestinali) riducendo la sensazione della fame9.
Si discute se la serotonina regoli in modo specifico l’assunzione di carboidrati11 e/o l’assunzione di grassi.
Il consumo di cibo quindi è regolato da un sistema complesso di interconnessioni e interferenze tra il sistema omeostatico e il sistema di ricompensa e gratificazione e il tipo di cibo che scegliamo può modulare questa regolazione.
Ripeto tuttavia che può avvenire anche il contrario ossia che le emozioni che proviamo modulino il sistema di ricompensa determinando la propensione ad assumere determinati cibi o aumentare o diminuire la quantità dei cibi assunti. Insomma, davvero tutto un equilibrio dinamico molto delicato.
L’aumento dell’appetito, anche in modo compulsivo che si ha in alcuni casi, in seguito all’assunzione di cibi appetibili oltre all’attivazione del sistema di ricompensa, può essere dovuto anche ad una risposta smussata ai segnali di sazietà.
Ciò può avvenire in diversi modi:
1) una maggiore espressione dei segnali di fame o dei loro recettori
2) una ridotta espressione dei segnali di sazietà e dei loro recettori.
Alcuni dei peptidi della fame come il neuropeptide Y sono sovraregolati dopo un periodo di alimentazione con grassi, in linea con una crescente fame di cibo grasso.
Allo stesso tempo, alcuni segnali di sazietà sono sottoregolati12, riducendo così la risposta di sazietà a un pasto grasso.
Tali cambiamenti nell’espressione del peptide potrebbero spiegare il consumo eccessivo di cibo. Altri segnali di fame come la grelina sono sotto-regolati in risposta all’assunzione di grasso13.
Una dieta ricca di grassi, d’altra parte, sovraregola diversi segnali di sazietà come la leptina e l’ insulina.
Ecco perché quando mangiamo un pasto particolarmente grasso ci saziamo prima ed ecco perché le diete chetogeniche (che puntano su un aumento dei cibi grassi nell’alimentazione) possono determinare una perdita di peso importante.
Tuttavia, poiché un regime alimentare appetibile porta a mangiare troppo nonostante il cambiamento nei segnali di appetito per limitare l’assunzione di cibo, ci deve essere una risposta smussata ai segnali di sazietà o l’assunzione di cibo è stimolata da altri fattori che agiscono all’interno del sistema di ricompensa.
Negli individui obesi sono state osservate concentrazioni sieriche elevate di leptina.
C’era anche un’incapacità della leptina di inibire l’assunzione di cibo in tali individui, una fenomenale “resistenza alla leptina“14.
Si è scoperto che una dieta ricca di grassi causava un aumento sostenuto della leptina circolante nei topi e che i livelli di leptina riflettevano la quantità di grasso nel corpo.
Tuttavia, nonostante l’aumento dei livelli di leptina, gli animali con una dieta ricca di grassi sono diventati obesi, limitando l’azione della leptina.
Inoltre si è visto che in questi individui la leptina ha una ridotta capacità di oltrepassare la barriera emato-encefalica impedendo di svolgere la sua funzione inibente la fame.
Anche per l’isulina succede la stessa cosa. Il passaggio dell’insulina nel cervello sembra essere un evento chiave nella sazietà indotta da insulina. Ci sono regioni specifiche nel cervello, ad es. l’ipotalamo e il retroencefalo, dove avviene la penetrazione dell’insulina15.
Che una dieta appetibile possa ridurre la penetrazione di insulina attraverso la barriera ematoencefalica è stato dimostrato in animali alimentati con una dieta ad alto contenuto di grassi per diverse settimane.
Ciò potrebbe contribuire allo sviluppo dell’obesità negli individui che seguono una dieta ricca di grassi.
Si potrebbe ipotizzare che una dieta ricca di grassi provochi una resistenza periferica all’insulina, che trasferisce il glucosio al cervello.
A poco a poco la barriera emato-encefalica diventa resistente alla penetrazione dell’insulina e di conseguenza l’effetto saziante dell’insulina viene perso.
Potrei scrivere per ore su questo argomento. In questo articolo ho cercato di semplificare tuttavia ogni individuo è un meraviglioso sistema talmente complesso che è difficile descrivere a parole ogni singolo meccanismo e che interagisce e interferisce con gli altri meccanismi e che regolano il corpo umano e il comportamento alimentare.
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La fermentazione è una tecnica di conservazione che esiste da milioni di anni1 e che al giorno di oggi ha visto una crescente popolarità che ha portato a incomprensioni e domande, prima fra tutte quale è la definizione di cibo fermentato.
La lunga durata di conservazione dei cibi fermentati e la rimozione di alcuni composti nocivi durante il processo di fermentazione serve ancora nelle regioni del mondo che hanno una bassa sicurezza alimentare e uno scarso accesso alla refrigerazione, all’elettricità e all’acqua pulita. Tuttavia, anche nelle società in cui l’igiene e la conservazione non sono un problema, i cibi fermentati costituiscono una parte importante della dieta dell’essere umano.
Si stima, infatti che attualmente siano prodotte più di 5.000 varietà di cibi e bevande fermentati.
Ma qual è la definizione di cibo fermentato?
I cibi fermentati sono “cibi realizzati attraverso la crescita di microrganismi voluti e che determina la modificazione enzimatica delle sue componenti “2
La definizione include cibi e bevande prodotti dalla fermentazione ma che potrebbero non avere microrganismi viventi al momento del consumo.
Alimenti fermentati, come il pane, vengono cotti dopo la fermentazione, uccidendo i microrganismi di fermentazione e la produzione di alcuni alimenti fermentati (ad esempio, la maggior parte birre e vini) include alcuni passaggi che rimuovono i microrganismi vivi dai prodotti finiti.
I principali microrganismi utilizzati nei processi di fermentazione sono batteri lattici (LAB), batteri acetici (AAB), bacilli o altri batteri, lieviti o funghi filamentosi. I batteri lattici sono un gruppo di batteri Gram-positivi e sono tra i microrganismi più importanti e ampiamente utilizzati nella fermentazione dei prodotti lattiero-caseari, della carne, dei cereali e dei vegetali3.
Oltre ai batteri lattici, alcuni alimenti fermentati come il Natto o l’aceto sono prodotti con specie particolari di Bacillus e batteri acetici, rispettivamente.
Per il pane, vino, birra o alcune fermentazioni alcoliche generalmente vengono utilizzati funghi, lieviti produttori di etanolo, della specie dei Saccharomyces.
Penicillium, Aspergillus e Rhizopus sono usati per i latticini, la carne e prodotti a base di soia.
Se fatti correttamente da ingredienti sicuri e sani, i cibi fermentati raramente sono pericolosi4. Ciò nonostante, alcuni formaggi e cibi fermentati a bassa acidità possono essere contaminati da Listeria
monocytogenes, Salmonella, Clostridium botulinum o altri patogeni di origine alimentare5,6.
L’alcol (ad esempio, vino, birra e liquori) e il sale (ad esempio, salsa di soia o kimchi) sono costituenti intrinseci di alcuni alimenti fermentati e dovrebbero essere consumati con moderazione.
Istamina, tiramina e altre ammine biogene sono formate da alcuni batteri lattici tramite la decarbossilazione degli amminoacidi durante la fermentazione di formaggi, carni, verdure, semi di soia e vino7. Queste ammine, se i nostri sistemi di detossicazione non sono molto efficienti, possono causare effetti come l’emicrania8.
Nonostante queste contrindicazioni, è una tecnica che può migliorare le proprietà degli alimenti trasformando materie prime insipide in prodotti nutrienti e appetibili. Inoltre, può anche migliorare la sicurezza alimentare e la qualità nutritiva rimuovendo sostanze tossiche o composti anti nutritivi dalle materie prime. Un esempio è la rimozione di composti tossici durante la fermentazione di cereali, legumi e tuberi.
Durante le fermentazioni a lievitazione naturale, alcuni batteri lattici facilitano la degradazione dei fitati, composti presenti nei cereali che riducono l’assorbimento nel tratto gastrointestinale di calcio, magnesio e zinco9.
Inoltre, la fermentazione riduce la concentrazione di monosaccaridi e disaccaridi ipercalorici come glucosio, saccarosio e fruttosio presenti nel latte, carne e verdure. La riduzione degli zuccheri riduce l’indice glicemico10,11 e migliora la tollerabilità alimentare. Nei cibi contenenti polifenoli, la conversione di composti fenolici da parte dei lattobacilli11 aumenta la biodisponibilità di flavonoidi, tannini e altri composti bioattivi12,13.
Insomma, i benefici sono tanti e seppur i microrganismi contenuti nei cibi fermentati non sopravvivono a lungo nell’intestino, la colonizzazione a breve termine è sufficiente per sintetizzare composti bioattivi e inibire i patogeni intestinali.
Secondo alcuni studi, gli alimenti fermentati possono influenzare la composizione del microbiota intestinale14 e se consumati durante la prima infanzia riducono il rischio di dermatiti atopiche e allergie15.
Insomma, come abbiamo sempre detto una alimentazione sana è caratterizzata essenzialmente da equilibrio e inserire nella nostra alimentazione in maniera equilibrata i prodotti fermentati non può che fare bene alla nostra salute. La cosa importante è che siano prodotti sicuri.
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Il termine svezzamento descrive il periodo di tempo in cui si passa progressivamente dall’allattamento esclusivo, che sia al seno o con biberon, all’introduzione di cibi solidi.
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) raccomanda l’allattamento esclusivo al seno per i primi sei mesi di età, e l’allattamento al seno complementare almeno fino al secondo anno di età. Secondo l’OMS, l’introduzione di alimenti complementari dovrebbe essere fatto in sicurezza, al momento giusto e adeguato; dovrebbe iniziare quando l’allattamento al seno esclusivo non può più fornire abbastanza nutrienti ed energia per la crescita e lo sviluppo del bambino1
Il periodo di svezzamento è un momento cruciale nella vita di un bambino poiché non solo comporta una grande quantità di rapidi cambiamenti, ma è anche associato allo sviluppo delle preferenze alimentari, dei comportamenti alimentari e del peso corporeo dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta.
Tradizionalmente, i bambini iniziano il percorso di svezzamento con puree pronte o preparate ad hoc che vengono offerte dal genitore con il cucchiaio.
Negli ultimi 10-15 anni, è andato sempre più prendendo piede anche in Europa un approccio alternativo noto come “svezzamento guidato dal bambino” (BLW) o “autosvezzamento”2,3
Le principali caratteristiche di questo metodo sono che i bambini, una volta acquisiti i requisiti fondamentali per auto-alimentarsi, partecipino ai pasti della famiglia e vengano offerti pezzi di cibo “interi”4.
Il genitore offre il cibo ma è il bambino che guida il percorso di svezzamento (da qui il termine “guidato dal bambino”): è il bambino che decide cosa, quanto e quanto velocemente mangiare5.
Il momento dello svezzamento è un momento cruciale anche nella vita dei genitori e spesso è accompagnato da ansie e paure.
La prima fra tutte quando ci si avvicina al mondo dell’autosvezzamento è il rischio di soffocamento. Questa paura nasce dal fatto che spesso si confonde il soffocamento e il conato.
Il conato è un riflesso involontario che con il passare del tempo si evolve ed è per questo che i nostri bambini a volte ci fanno perdere 10 anni di vita ;).
Fino a sei mesi il riflesso del conato si attiva quando il cibo arriva a 1/3 della lingua, poi questo riflesso si sposta a 2/3 della lingua quando vengono fuori i molari e infine vicino all’ugola nell’individuo adulto.
Il bambino che inizia un percorso di autosvezzamento può avere molti conati perché sta imparando a regolare la quantità di cibo che riesce a masticare e deglutire. Deve fare esperienza!
Gli studi, infatti dimostrano che non ci sono differenze nell’incidenza del soffocamento tra i gruppi di autosvezzamento e quelli di svezzamento tradizionale6
Tuttavia, anche nell’autosvezzamento ci sono delle regole per evitare episodi spiacevoli ossia il cibo deve essere tagliato in un certo modo e alcuni cibi sono proibiti fino alla comparsa dei molari.
Un’altra grande paura quando ci si avvicina al mondo dell’autosvezzamento è: “Starà mangiando abbastanza?”
Già, perché spesso i bambini che vengono autosvezzati inizialmente mangiano poco. Manipolano con le mani ma alla fine alla bocca arriva ben poco cibo.
Innanzitutto, una precisazione da fare è che all’inizio l’introduzione degli alimenti non va a sostituire il latte materno o artificiale che rimane l’alimento principale. Il cibo solido sarà complementare al latte. Man mano che il bambino prenderà confidenza con il cibo solido e mangerà sempre di più, il numero di poppate naturalmente andranno a diminuire.
Se vengono seguite le giuste regole di una sana alimentazione, non ci sono differenze significative di peso tra i bambini autosvezzati e quelli svezzati con il metodo classico7.
Messe un po’ a tacere queste paure, il baby led weaning ha molti vantaggi.
Il bambino mangia insieme a tutta la famiglia in un momento di convivialità (abbiamo visto quanto sia importante la convivialità per gli adulti, figuriamoci per i bambini!) e il non dover preparare mille pasti diversi riduce lo stress del pasto. Inoltre, non essendoci pressioni da parte del genitore (e il bambino che decide quanto, quanto e quanto velocemente) la serenità dei pasti è pressochè assicurata.
Inoltre, si è visto che neonati autosvezzati sono significativamente più sensibili al segnale di sazietà8. Il principio cardine dell’autosvezzamento è infatti l’autoregolazione ossia la capacità di avvertire il senso di sazietà e decidere di smettere di mangiare.
Il baby led weaning non sembra essere preventivo sull’obesità o i disturbi del comportamento alimentare (spesso dovuti a disagi emotivi) ma è sicuramente un primo passo verso un equilibrio alimentare9.
Il gusto, inteso come percezione del sapore degli alimenti inizia ad essere presente già in gravidanza tuttavia il bambino continua a sperimentare i sapori durante l’allattamento e lo svezzamento. Se lo svezzamento viene fatto con gli alimenti che l’intera famiglia mangia (ovviamente è importante una corretta e sana abitudine alimentare familiare) il bambino sarà più portato ad apprezzare quei sapori anche da adulto10.
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Rapley G, Murkett T. Baby-led weaning: helping your baby love good food. London: Vermilion; 2008. 8. Rapley G.
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Spoonfeeding is associated with increased infant weight but only amongst formula-fed infants
Early influences on child satiety‐responsiveness: the role of weaning style Brown ,M. D. Lee
Quando ero bambina c’era un piatto che mia nonna faceva spesso e di cui ero ghiotta. In pugliese, lei lo chiamava “lu coppu” ed era una focaccia con farina di semola rimacinata, ripiena di cipolle, olive, capperi e pomodorini. Il profumo di quella pietanza credo sia diffile per me da dimenticare e ogni volta che lo preparo mi basta sentirne l’odore o assaggiarne un piccolo pezzetto per ricordare la sensazione di amorevolezza con cui mia nonna lo preparava per me. Devo dire che ancora oggi quando ho voglia di ricordarla, preparo questo piatto.
Ma perché succede questo? Sarà capitato a molti di assaggiare un determinato cibo o sentirne l’odore e ricordare una particolare situazione, una persona o un’emozione. Il gusto e l’odore del cibo in alcuni casi hanno un potere evocativo straordinario, sia di ricordi belli sia brutti.
La struttura del cervello importante per la formazione dei ricordi è l’ippocampo, che fa parte del sistema limbico. Una complessa struttura del cervello di cui fa parte anche l’ipotalamo e l’amigdala e la cui funzione principale è la regolazione emotiva. Il sistema olfattivo è strettamente collegato al sistema limbico ed è per questo che gli odori si possono intrecciare con l’esperienza di emozioni e ricordi.
Il cibo è essenziale per la sopravvivenza della specie come il sesso. Per cui, per assicurarci la sopravvivenza della specie, la Natura ci ha reso in grado di provare piacere nel compiere degli atti essenziali per noi. In aggiunta, il centro della ricompensa e gratificazione è fisicamente molto vicino al centro della memoria per cui ogni volta che mangiamo qualcosa di piacevole o spiacevole, quella sensazione crea un’impronta di memoria nel cervello.
E così basterà risentire il profumo di quel cibo o il sapore per farci tornare alla mente una situazione, un’emozione, una persona in modo del tutto involontario.
D’altronde non è un caso che tutti i nostri momenti di festa siano accompagnati da cibo e generalmente cibo di tradizione che evoca ricordi e sensazioni.
E’ molto importante sapere che il cibo ha questo potere rievocativo perché i ricordi possono condizionare le nostre scelte alimentari. E così associare i ricordi piacevoli di quando eravamo bambini a piatti equilibrati e sani è il mezzo migliore per favorire scelte alimentari positive da adulti
Credo sia il periodo giusto per parlare di cioccolato.
E’ un alimento spesso considerato proibito nel pensiero di chi vorrebbe dimagrire ma che in realtà nasconde tantissime proprietà nutrizionali importanti.
Ed è per questo che spesso lo inserisco nei miei piani alimentari. Come ho sempre detto il segreto non è nella rinuncia ma nell’equilibrio.
La storia del cioccolato è una storia antica che risale ai Maya che preparavano una bevanda al cacao con acqua calda e spesso aromatizzata con cannella e pepe e che chiamavano il “Cibo degli Dei”.1
Partendo dalle fave di cacao, l’industria alimentare oggi produce diversi tipi di cioccolato, più o meno interessanti dal punto di vista nutrizionale:
Il cioccolato fondente contiene fave di cacao (fino all’80% del peso totale) e burro di cacao. Ha un piacevole retrogusto amarognolo e un odore intenso. La sua qualità dipende dalla percentuale di cacao. Dal punto di vista nutrizionale, se è un buon cioccolato fondente, intendo di qualità è il migliore perché mantiene le proprietà delle fave senza troppi ingredienti supplementari.
Infatti, tutti gli altri tipi di cioccolato in commercio contengono una quota più o meno importante di zucchero e additivi. Per esempio, il cioccolato Gianduja è una combinazione di nocciole, cacao e zucchero.
Il cioccolato al latte contiene burro di cacao, zucchero, latte in polvere, lecitina e cacao (quest’ultimo non inferiore al 20–25%).
E infine, il cioccolato bianco contiene burro di cacao, latte e zucchero senza fave di cacao per cui contiene ben poco come proprietà nutrizionali2
Il cacao, l’ingrediente base del cioccolato, contiene:
Una quantità significativa di grassi “buoni”.
Polifenoli3: catechine (37%), antocianidine (4%) e proantocianidine (58%) Se qualcuno di voi ha mai assaggiato le fave di cacao, avrà potuto sperimentare l’amarezza causata dai polifenoli che per molti rende le fave di cacao non trasformate piuttosto sgradevoli. L’industria alimentare ha sviluppato tecniche di lavorazione per eliminare l’amarezza. Tali processi, tuttavia, riducono il contenuto di polifenoli fino a 10 volte. Ed è per questo che il cioccolato fondente (con un’alta percentuale di cacao e composti antiossidanti fenolici più elevati rispetto alle altre varietà di cioccolato) è da preferire5
Minerali: potassio, fosforo, rame, ferro, zinco e magnesio6.
Composti azotati che includono sia proteine che metilxantine (teobromina e caffeina)6
Gli effetti benefici sulla salute sono innumerevoli.
I polifenoli, infatti, attivano la produzione di ossido nitrico che abbassa la pressione sanguigna7 ma non solo….
L’ossido nitrico interviene su quei meccanismi che determinano il rilassamento della muscolatura vascolare portando a vasodilatazione e migliore irrorazione ematica del pene. Se a questo aggiungiamo il suo potere afrodisiaco dato dalla stimolazione della produzione di serotonina capiamo quanto il cioccolato abbia una influenza piuttosto importante nel benessere della sessualità8.
E poi, lo sapete che il cioccolato migliora l’omeostasi del glucosio rallentando la digestione e l’assorbimento dei carboidrati nell’intestino9?
Infatti, le procianidine contenute nelle fave di cacao inibiscono in modo dose-dipendente l’α-amilasi pancreatica, la lipasi pancreatica e la fosfolipasi A2 secreta. I suoi flavonoidi migliorano la sensibilità all’insulina regolando il trasporto del glucosio e le proteine di segnalazione dell’insulina nei tessuti insulino-sensibili (fegato, tessuto adiposo e muscolo scheletrico).
E infine, tutti voi oramai sapete quanto sono affezionata al microbiota intestinale e il cacao si è visto che aiuta il suo benessere inducendo un significativo aumento dei lattobacilli, batteri essenziali per il nostro intestino10.
Scrivendo questo articolo, mi viene in mente quanto tutto ciò sia correlato nel nostro corpo. Non siamo fatti di organi singoli ma di un meraviglioso sistema che collabora per il benessere dell’organismo. Tutti i benefici del cioccolato dati dalle sue innumerevoli proprietà sono il risultato di un’azione sistemica sul nostro corpo di cui io rimango affascinata.
“Tutto ciò di cui hai bisogno è amore, ma un po’ di cioccolato di quando in quando non fa male!” CHARLES M. SCHULZ
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lavanol-Enriched Cocoa Powder Alters the Intestinal Microbiota, Tissue and Fluid Metabolite Profiles, and Intestinal Gene Expression in Pigs. Jang S, Sun J, Chen P, Lakshman S, Molokin A, Harnly JM, Vinyard BT, Urban JF Jr, Davis CD, Solano-Aguilar G J Nutr. 2016 Apr; 146(4):673-80.
Ho spesso raccontato il fatto che quando ho scelto di iscrivermi a Biologia, mi sono detta: “Mai e poi mai farò la nutrizionista”.
Convinta che questo lavoro significasse fare diete più o meno prestampate lavorando semplicemente sul valore nutrizionale degli alimenti, senza parlare di gusto, piacere, emozioni. Tutte cose che con una dieta non c’entravano nulla.
Se vuoi dimagrire o star bene devi fare sacrifici! Poi, invece, la vita ti porta ad aprire le vedute e a scegliere di fare questo lavoro con la consapevolezza di quanto il gusto guidi le nostre scelte alimentari.
Quando parlo di gusto mi viene sempre in mente questa frase: Portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzetto di madeleine. Ma nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di biscotto toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario (Marcel Proust) Il piacere del gusto d’altronde è qualcosa di straordinario, se solo ci facciamo caso. A volte, capita di mangiare di fretta o distrattamente, anche cose particolarmente buone per noi, e non ci facciamo caso tuttavia ogni volta che riportiamo la mente al momento presente assaporando il cibo che portiamo alla bocca, qualcosa di straordinario avviene in noi. La cosa più straordinaria, per me, è il fatto che, seppur i meccanismi biologici siano uguali in tutte le persone, il gusto, inteso come piacere, non lo è. Alcune persone preferiscono il gusto dolce, altre aspro, altre amaro, altre humami, altre salato. E queste preferenze di gusto.. quando nascono e da cosa dipendono? Recenti scoperte suggeriscono che le preferenze alimentari inizino nell’utero1. In realtà noi iniziamo a mangiare ben prima di quanto possiamo ricordare. Il nostro primo pasto? Il liquido amniotico! E il gusto del liquido amniotico cambia in funzione della dieta della madre. In effetti, recenti scoperte suggeriscono che le preferenze alimentari iniziano nell’utero. Infatti, i recettori del gusto si sviluppano già a 7/8 settimane e saranno completamente maturi a 17 settimane di gestazione2. Tra la 22a e la 25a settimana di gestazione i segnali del gusto vengono trasmessi al sistema nervoso centrale e il feto reagisce ai diversi gusti.
I primi mesi di vita intrauterina sono, quindi, una parte essenziale del processo di apprendimento del sapore negli esseri umani e la prima esperienza con i diversi gusti è molto importante per la successiva accettazione degli alimenti, in particolare di quelli sani.
Da questo capiamo quanto sia importante seguire una corretta alimentazione in gravidanza, non solo per mantenere un peso adeguato ma anche per aiutare il nostro bimbo ad assaporare diversi gusti e preparare le basi per uno svezzamento quanto più possibile sereno. Queste basi possono essere poi consolidate durante il periodo dello svezzamento3. E da adulti? A volte capita che la vita frenetica ci porti a consumare sempre gli stessi cibi, per facilità e (presunta) velocità di preparazione, oppure alimenti preconfezionati che possono alterare la nostra percezione del gusto. Tuttavia, pian piano è possibile riabituare il nostro palato a gusti più semplici attraverso piani alimentari mirati.
Bibliografia:
1. You Are What You (First) Eat Kelly L Buchanan, Diego V Bohórquez 2. Innervation of developing human taste buds. An immunohistochemical study M. Witt & Klaus Reutter 3. Early Taste Experiences and Later Food Choices Valentina De Cosmi, Silvia Scaglioni, and Carlo Agostoni