Nausea e vomito sono un problema comune per le donne in gravidanza (1).
La causa principale di questo problema è sconosciuta ed è probabilmente dovuta a diversi fattori tra i quali i cambiamenti ormonali hanno il ruolo più importante (2).
Generalmente questi disturbi iniziano nella sesta/ottava settimana di gravidanza e terminano intorno alla dodicesima settimana, anche se in alcune donne i suoi sintomi possono persistere fino alla ventesima settimana (3).
Sono disturbi fastidiosi che possono determinare un aumento del rischio di stress materno, ansia e depressione, bassa qualità della vita, e riduzione delle funzioni fisiche e sociali materne (4).
La ricerca ha dimostrato che il trattamento preventivo all’inizio della gravidanza riduce la gravità dei sintomi e può avere un profondo effetto sulla salute della donna incinta e sulla qualità della vita.
Tuttavia, molte donne non ricevono informazioni adeguate sui cambiamenti dello stile di vita o sul trattamento farmacologico o complementare tempestivo.
Oltre alla dieta e alla modifica dello stile di vita, la medicina complementare è, infatti, un interessante aiuto per molte donne, tanto che più dell’87% delle donne utilizza almeno un metodo di medicina complementare e alternativa durante la gravidanza.
Vediamo quali sono, secondo gli studi disponibili, i rimedi più efficaci:
Zenzero (5). Lo zenzero è un tubero con grandi proprietà medicinali. È utilizzato per il trattamento della nausea in gravidanza, ma anche per alleviare i dolori articolari, per il trattamento di malattie infiammatorie come l’artrite reumatoide, l’osteoartrite, per migliorare i sintomi della sindrome premestruale, per ridurre la nausea e il vomito dopo interventi chirurgici e dopo chemioterapia;
Menta piperita(6). La menta è un’erba medicinale nota e importante che viene utilizzata in medicina come riduttore della nausea postoperatoria e come agente antisettico, analgesico e anticoagulante. Un meccanismo proposto per i suoi effetti antiemetici e antispasmodici sul sistema gastrointestinale è l’inibizione delle contrazioni muscolari indotte dalla serotonina. La menta piperita agisce anche come anestetico sulla parete dello stomaco che blocca la nausea e il vomito.
Generalmente, questo rimedio viene proposto come aromaterapia poiché ne è sconsigliata l’ingestione a causa del suo effetto emmenagogo ossia in grado di stimolare l’afflusso di sangue nell’area pelvica e nell’utero.
Limone (7). Il limone è ricco di composti fenolici, vitamine, minerali, carotenoidi e ha proprietà analgesiche, antisettiche, antiemetiche e diuretiche. Diversi studi hanno dimostrato che l’inalazione di olio essenziale di limone può determinare una significativa riduzione della nausea e del vomito gravidico.
Cardamomo (8). Il cardamomo è un’erba profumata con una lunga storia nel trattamento dei sintomi gastrointestinali e del mal di stomaco. L’olio estratto dai semi di cardamomo è una combinazione di terpeni, esteri, flavonoidi e altri composti.
Questa erba ha benefici medici per il trattamento dell’asma e ha proprietà anti-iperlipidemiche, antisettiche, antispasmodiche, antigonfiore e diuretiche. L’aromaterapia con l’inalazione di oli di cardamomo è efficace nell’alleviare la nausea causata dalla chemioterapia nei pazienti con cancro. È stato dimostrato inoltre dimostrato che l’assunzione di cardamomo riduce significativamente la gravità della nausea e vomito gravidico.
Pericardio 6 (Nei Guan) (9). La digitopressione è un metodo non medicinale per ridurre la nausea e il vomito. Il punto P6, è situato due pollici sopra la piega distale del polso interno.
Il meccanismo alla base dell’efficacia della digitopressione è sconosciuto, ma la stimolazione transcutanea a bassa frequenza può modificare la trasmissione dei neurotrasmettitori.
Inoltre, la digitopressione ha un effetto inibitorio sulla secrezione di acidi gastrici.
KID21 (10). Il punto KID21 si trova appena sotto lo sterno su entrambi i lati al centro dello stomaco.
Come dico sempre, è essenziale rivolgersi ad un professionista prima di assumere qualsiasi pianta soprattutto in gravidanza perché anche le piante possono dare effetti collaterali, a volte, anche molto gravi.
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La psoriasi è una malattia cronica infiammatoria della pelle caratterizzata da un’iperproliferazione e differenziazione anormale dei cheratinociti epidermici e a genesi multifattoriale cui partecipano fattori genetici, ambientali ed immunologici.
E’ una patologia con un forte impatto invalidante sia sul fisico sia sulla psiche, poiché le lesioni tipiche spesso interessano zone visibili come volto e mani.
Circa il 3% della popolazione italiana ne soffre1 e circa il 25-30% è colpito da una forma moderata-grave2.
Insorge prevalentemente in due fasce d’età, uno precoce (20-30 anni) e uno tardivo (50-60 anni)3 con un rapporto uomo:donna pari a 1:14. Tuttavia, esistono casi di psoriasi in età pediatrica.
Recenti studi hanno dimostrato che è una patologia spesso associata ad obesità, diabete, dislipidemia, malattie cardiovascolari o malattie infiammatorie intestinali e in linea generale ad infiammazione sistemica di basso grado.
Pertanto, il ruolo della “dieta” è importantissimo e cruciale in questo genere di patologie.
Vediamo insieme come.
Innanzitutto, è stato dimostrato che l’obesità è associata alla psoriasi per la presenza di uno stato pro-infiammatorio cronico che favorisce diversi disordini metabolici, contribuendo a una ridotta qualità della vita e delle abitudini alimentari dei pazienti5 e che il rischio relativo di psoriasi è direttamente correlato all’indice di massa corporea (BMI)6.
Il tessuto adiposo, infatti, agisce come un tessuto endocrino attivo e dà luogo a uno stato pro-infiammatorio nei pazienti in sovrappeso7.
Per cui è di estrema importanza perdere peso attraverso diete ipocaloriche BILANCIATE che riducono i livelli di insulina, leptina, proteina C-reattiva e proteina 1 chemiotattica e aumentano i livelli di adiponectina, producendo un effetto antinfiammatorio.
Ma non solo!
Diversi studi hanno dimostrato che è la qualità delle sostanze nutritive all’interno della “dieta” di questi pazienti che fa la differenza.
La psoriasi è meno frequente nelle popolazioni giapponesi, norvegesi ed eschimesi la cui dieta è ricca di acidi grassi, come gli omega-3, derivati dall’olio di pesce d’acqua fredda; ciò contrasta con la maggiore frequenza di psoriasi nelle popolazioni che consumano oli vegetali e animali tipici delle diete occidentali, che sono ricche di omega-68.
Gli Omega-3 competono con l’acido arachidonico (AA) a livello delle membrane fosfolipidiche e quindi riducono l’infiammazione indotta dalle prostaglandine.
Sono stati osservati livelli aumentati di acido arachidonico e leucotrieni nelle placche psoriasiche rispetto alle aree della pelle normale9 e le fonti alimentari di acido arachidonico includono prodotti animali, come carne e tuorlo d’uovo.
Per cui, “diete” ricche di prodotti animali peggiorano la patologia.
È stata descritta, inoltre, un’associazione tra la celiachia e diverse malattie autoimmuni tra cui anche la psoriasi. I livelli di anticorpi (anti-gliadina, anti-endomisio e anti-transglutaminasi) sono correlati alla gravità della psoriasi.
Attenzione: c’è da sottolineare il fatto che nella maggior parte di questi pazienti l’enteropatia glutine-sensibile si manifesta con pochi o nessun sintomo gastrointestinale.
Per cui, “diete” prive di glutine danno miglioramenti notevoli sulla patologia10.
L’eccessiva assunzione di zuccheri semplici può aggravare la patologia11.
La soia sembra essere un potenziale agente anti-psoriasi12. Gli isoflavoni sono fitoestrogeni abbondanti nella soia e la genisteina è l’isoflavone principale con una potente attività antinfiammatoria.
La psoriasi può essere innescata o peggiorata dall’assunzione di alcol13.
E infine, tantissimi studi correlano una alterazione della flora intestinale alla patologia.
I probiotici sono microrganismi viventi che conferiscono benefici per la salute all’ospite se somministrati in quantità adeguate14.
Sono microrganismi in grado di modulare il nostro sitema immunitario ed è stato dimostratpo che l’assunzione di Lactobacillus e Bifidobacterium ha effetti benefici sui pazienti affetti da psoriasi.
Le diete ricche di frutta e verdura fresca sono associate a una minore prevalenza di psoriasi e le diete vegane/vegetariane sono state associate a un miglioramento clinico.
Il cibo può essere una potente medicina e nel caso della psoriasi gli effetti sono abbastanza immediati.
Sono “diete” particolari che hanno necessità di essere ben bilanciate per evitare carenze nutrizionali e consiglio sempre di rivolgersi ad un professionista che si occupa di nutrizione clinica.
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L’intestino ha, oltre la funzione digestiva e di assorbimento degli alimenti, l’importantissima funzione di barriera tra il mondo esterno (cibo) e il mondo interno. La barriera intestinale è un’entità veramente molto complessa, costituita da più componenti, interattiva e bidirezionale. E’ un sistema a più strati che ha il compito di distinguere tra microrganismi commensali o patogeni, tollerando i commensali e scatenando una risposta immune contro i patogeni. Il primo strato è rappresentato dalla microflora intestinale (microrganismi commensali) che inibiscono la colonizzazione di agenti patogeni mediante la produzione di sostanze antimicrobiche. Lo strato successivo è rappresentato dal muco che impedisce l’adesione batterica sia attraverso la produzione di sostanze antimicrobiche sia attraverso la secrezione di immunoglobuline A. E infine, al di sotto del muco è presente uno strato di cellule epiteliali chiamate enterociti unite tra loro strettamente da giunzioni chiamate serrate che formano una vera e propria barriera fisica che consente di assorbire i nutrienti ma impedisce alle molecole più grandi e ai microrganismi di passare nel circolo sanguigno. Le giunzioni serrate sono, quindi, le porte che impediscono ai microbi patogeni e alle molecole più grandi di passare nel circolo sanguigno determinando una risposta immunitaria. La chiave che apre queste porte è una proteina chiamata zonulina. Quando, per ragioni che analizzeremo tra poco, nell’intestino viene prodotta zonulina, le giunzioni serrate si aprono rendendo l’intestino poroso e permettendo il passaggio a sostanze e microrganismi che non dovrebbero passare nel sangue e determinando quella che viene chiamata “permeabilità intestinale”.
Le principali cause che determinano il rilascio della zonulina sono:
1)alterazioni della flora intestinale;
2)l’uso prolungato di alcuni farmaci
3)infezioni
4)lo stress
5)diete sbilanciate.
I sintomi che possono far pensare ad una permeabilità intestinale sono: -diarrea cronica, costipazione o gonfiore; -infezioni genitourinarie ricorrenti; -stanchezza; -problemi della pelle; -dolori articolari; -Intolleranza a molteplici alimenti. Quando, quindi, viene prodotta zonulina le giunzioni serrate del nostro intestino si aprono permettendo il passaggio attraverso i tessuti e la circolazione sistemica di proteine, glutine, microbi e antigeni alimentari, etc, provocando un’infiammazione intestinale che può innescare una serie di malattie autoimmuni come infiammatorie malattie intestinali, celiachia, epatite autoimmune, sclerosi multipla, ovaio policistico, obesità, ecc. Per cui possiamo dire che l’intestino permeabile è l’anticamera di alcune patologie autoimmuni. Mantenere un intestino sano è quindi molto importante per mantenere il proprio stato di salute e l’arma più potente che abbiamo per far si che il nostro intestino stia bene è condurre una vita sana ed equilibrata praticando attività fisica, coltivando pensieri positivi, riducendo lo stress e facendo ovviamente una alimentazione quanto più possibile bilanciata.
Come ho scritto tuttavia l’assunzione di cibo non è controllata solo da circuito omeostatico ma anche dal centro di ricompensa e gratificazione che è un circuito presente nel nostro cervello responsabile della motivazione, dell’apprendimento, e delle emozioni positive, in particolare quelle che coinvolgono il piacere come componente fondamentale tra cui anche il piacere del cibo.
E a complicare le cose si aggiunge il fatto che questi due meccanismi, circuito omeostatico e di ricompensa e gratificazione, si influenzano tra loro.
Il cibo è una potente ricompensa naturale e l’interazione tra umore, stato emotivo e comportamenti alimentari è complessa. Gli individui possono regolare le loro emozioni e l’umore anche attraverso le scelte alimentari e le quantità di cibo assunte e viceversa1.
Ovviamente, mi occupo della parte alimentare per cui di come il cibo possa alterare il nostro umore e le nostre emozioni tuttavia capite quanto sia importante avere consapevolezza delle nostre emozioni e quanto il lavoro integrato con la figura di uno psicoterapeuta sia essenziale in alcune situazioni (da qui la mia forte volontà di costruire, insieme alle mie colleghe, un centro integrato di psicologia e nutrizione: www.psi-ko.it).
D’altronde si sa che negli esseri umani, il comportamento alimentare è complesso e può essere influenzato anche dalle emozioni.
Emozioni specifiche come rabbia, paura, tristezza e gioia, così come anche altri stati d’animo possono influenzare la risposta alimentare sia in termini di motivazione a mangiare o di scelta di che tipo di cibo mangiare, sia in termini di masticazione, quantità, metabolismo e digestione2,3.
Ogni persona ha sperimentato almeno una volta nella vita un cambiamento nell’assunzione di cibo in risposta allo stress emotivo (in media il 30% un aumento e del 48% una diminuzione dell’appetito).
Non a caso, gli effetti delle emozioni sull’assunzione di cibo sono ampiamente studiati tuttavia a causa della loro variabilità rimane difficile prevedere come un’emozione può influire sul cibo in un dato gruppo di persone.
Le emozioni possono aumentare l’assunzione di cibo in un gruppo di persone oppure diminuire l’assunzione di cibo un altro gruppo e non solo…emozioni diverse possono aumentare o diminuire il consumo di cibo nello stesso gruppo di individui.
Ad esempio, la noia potrebbe essere associata ad un aumento dell’appetito, ma la tristezza ad una diminuzione4.
Per cui parlare di come le emozioni influenzino l’assunzione di cibo e viceversa è molto complicato perciò torniamo a parlare della componente biologica e alimentare.
Sebbene ci siano molti sistemi neurotrasmettitori all’interno della regione del cervello responsabile del sistema di ricompensa e gratificazione, gli studi sugli effetti gratificanti del cibo si sono concentrati su tre sistemi di segnale, ossia gli oppioidi endogeni5, la dopamina7 e la serotonina.
Vediamo come questi neurotrasmettitori siano in grado di modulare l’assunzione di cibo.
E’ stato visto che una proprietà importante degli oppiacei è quella di rafforzare il comportamento.
Infatti si è visto che l’iniezione sistemica di morfina provoca una maggiore assunzione di cibo nei ratti.
Analizzando il tipo di cibo scelto sotto l’influenza degli oppiacei, si è riscontrato che la morfina stimola l’ingestione di alimenti ricchi di zuccheri e grassi6.
Un altro neurotrasmettitore che sembra essere coinvolto nella risposta di ricompensa del cibo è la dopamina7. Il consumo di cibo, alcuni tipi più e altri meno, porta alla produzione di dopamina, che a sua volta attiva i centri di ricompensa e piacere nel cervello.
Un individuo mangerà ripetutamente un alimento particolare per provare la sensazione positiva di gratificazione8.
Questo tipo di comportamento ripetitivo di assunzione di cibo porta all’attivazione di percorsi di ricompensa al livello del cervello che alla fine prevalgono sugli altri segnali di sazietà e fame. Quindi, l’abitudine di gratificazione attraverso un determinato cibo porta all’eccesso di quel cibo.
È interessante notare che i cibi altamente appetibili attivano le stesse regioni di ricompensa e piacere nel cervello che vengono attivate dalle droghe, suggerendo che alcuni tipi di cibi possano attivare un meccanismo di dipendenza che può portare poi a eccesso di cibo e obesità.
D’altronde, si sa che la dopamina, che attiva direttamente i centri di ricompensa e piacere, influenza sia l’umore che l’assunzione di cibo. Insomma è lei in parte la responsabile del legame tra psicologia e comportamento alimentare.
È stato scoperto, inoltre, che la leptina (ormone responsabile della diminuizione della sensazione della fame e coinvolto nel circuito omeostatico) riduce il rilascio di dopamina durante l’alimentazione, suggerendo che la leptina sopprime la ricompensa indotta dall’alimentazione.
Vedremo successivamente tuttavia come questo segnale venga poi by-passato determinando un aumentato consumo di cibo.
Un terzo neurotrasmettitore che può contribuire alla regolazione dell’appetito è la serotonina. Diverse osservazioni suggeriscono che la serotonina possa essere coinvolta nel controllo dell’assunzione di cibo come segnale di sazietà9.
I livelli di serotonina cerebrale sono influenzati da molti fattori, inclusi i livelli circolanti di triptofano e alcuni macronutrienti10.
Nell’ipotalamo, la serotonina inibisce l’espressione del neuropeptide Y (la cui funzione è quella di inibire le contrazioni intestinali, le secrezioni gastriche e intestinali) riducendo la sensazione della fame9.
Si discute se la serotonina regoli in modo specifico l’assunzione di carboidrati11 e/o l’assunzione di grassi.
Il consumo di cibo quindi è regolato da un sistema complesso di interconnessioni e interferenze tra il sistema omeostatico e il sistema di ricompensa e gratificazione e il tipo di cibo che scegliamo può modulare questa regolazione.
Ripeto tuttavia che può avvenire anche il contrario ossia che le emozioni che proviamo modulino il sistema di ricompensa determinando la propensione ad assumere determinati cibi o aumentare o diminuire la quantità dei cibi assunti. Insomma, davvero tutto un equilibrio dinamico molto delicato.
L’aumento dell’appetito, anche in modo compulsivo che si ha in alcuni casi, in seguito all’assunzione di cibi appetibili oltre all’attivazione del sistema di ricompensa, può essere dovuto anche ad una risposta smussata ai segnali di sazietà.
Ciò può avvenire in diversi modi:
1) una maggiore espressione dei segnali di fame o dei loro recettori
2) una ridotta espressione dei segnali di sazietà e dei loro recettori.
Alcuni dei peptidi della fame come il neuropeptide Y sono sovraregolati dopo un periodo di alimentazione con grassi, in linea con una crescente fame di cibo grasso.
Allo stesso tempo, alcuni segnali di sazietà sono sottoregolati12, riducendo così la risposta di sazietà a un pasto grasso.
Tali cambiamenti nell’espressione del peptide potrebbero spiegare il consumo eccessivo di cibo. Altri segnali di fame come la grelina sono sotto-regolati in risposta all’assunzione di grasso13.
Una dieta ricca di grassi, d’altra parte, sovraregola diversi segnali di sazietà come la leptina e l’ insulina.
Ecco perché quando mangiamo un pasto particolarmente grasso ci saziamo prima ed ecco perché le diete chetogeniche (che puntano su un aumento dei cibi grassi nell’alimentazione) possono determinare una perdita di peso importante.
Tuttavia, poiché un regime alimentare appetibile porta a mangiare troppo nonostante il cambiamento nei segnali di appetito per limitare l’assunzione di cibo, ci deve essere una risposta smussata ai segnali di sazietà o l’assunzione di cibo è stimolata da altri fattori che agiscono all’interno del sistema di ricompensa.
Negli individui obesi sono state osservate concentrazioni sieriche elevate di leptina.
C’era anche un’incapacità della leptina di inibire l’assunzione di cibo in tali individui, una fenomenale “resistenza alla leptina“14.
Si è scoperto che una dieta ricca di grassi causava un aumento sostenuto della leptina circolante nei topi e che i livelli di leptina riflettevano la quantità di grasso nel corpo.
Tuttavia, nonostante l’aumento dei livelli di leptina, gli animali con una dieta ricca di grassi sono diventati obesi, limitando l’azione della leptina.
Inoltre si è visto che in questi individui la leptina ha una ridotta capacità di oltrepassare la barriera emato-encefalica impedendo di svolgere la sua funzione inibente la fame.
Anche per l’isulina succede la stessa cosa. Il passaggio dell’insulina nel cervello sembra essere un evento chiave nella sazietà indotta da insulina. Ci sono regioni specifiche nel cervello, ad es. l’ipotalamo e il retroencefalo, dove avviene la penetrazione dell’insulina15.
Che una dieta appetibile possa ridurre la penetrazione di insulina attraverso la barriera ematoencefalica è stato dimostrato in animali alimentati con una dieta ad alto contenuto di grassi per diverse settimane.
Ciò potrebbe contribuire allo sviluppo dell’obesità negli individui che seguono una dieta ricca di grassi.
Si potrebbe ipotizzare che una dieta ricca di grassi provochi una resistenza periferica all’insulina, che trasferisce il glucosio al cervello.
A poco a poco la barriera emato-encefalica diventa resistente alla penetrazione dell’insulina e di conseguenza l’effetto saziante dell’insulina viene perso.
Potrei scrivere per ore su questo argomento. In questo articolo ho cercato di semplificare tuttavia ogni individuo è un meraviglioso sistema talmente complesso che è difficile descrivere a parole ogni singolo meccanismo e che interagisce e interferisce con gli altri meccanismi e che regolano il corpo umano e il comportamento alimentare.
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La fermentazione è una tecnica di conservazione che esiste da milioni di anni1 e che al giorno di oggi ha visto una crescente popolarità che ha portato a incomprensioni e domande, prima fra tutte quale è la definizione di cibo fermentato.
La lunga durata di conservazione dei cibi fermentati e la rimozione di alcuni composti nocivi durante il processo di fermentazione serve ancora nelle regioni del mondo che hanno una bassa sicurezza alimentare e uno scarso accesso alla refrigerazione, all’elettricità e all’acqua pulita. Tuttavia, anche nelle società in cui l’igiene e la conservazione non sono un problema, i cibi fermentati costituiscono una parte importante della dieta dell’essere umano.
Si stima, infatti che attualmente siano prodotte più di 5.000 varietà di cibi e bevande fermentati.
Ma qual è la definizione di cibo fermentato?
I cibi fermentati sono “cibi realizzati attraverso la crescita di microrganismi voluti e che determina la modificazione enzimatica delle sue componenti “2
La definizione include cibi e bevande prodotti dalla fermentazione ma che potrebbero non avere microrganismi viventi al momento del consumo.
Alimenti fermentati, come il pane, vengono cotti dopo la fermentazione, uccidendo i microrganismi di fermentazione e la produzione di alcuni alimenti fermentati (ad esempio, la maggior parte birre e vini) include alcuni passaggi che rimuovono i microrganismi vivi dai prodotti finiti.
I principali microrganismi utilizzati nei processi di fermentazione sono batteri lattici (LAB), batteri acetici (AAB), bacilli o altri batteri, lieviti o funghi filamentosi. I batteri lattici sono un gruppo di batteri Gram-positivi e sono tra i microrganismi più importanti e ampiamente utilizzati nella fermentazione dei prodotti lattiero-caseari, della carne, dei cereali e dei vegetali3.
Oltre ai batteri lattici, alcuni alimenti fermentati come il Natto o l’aceto sono prodotti con specie particolari di Bacillus e batteri acetici, rispettivamente.
Per il pane, vino, birra o alcune fermentazioni alcoliche generalmente vengono utilizzati funghi, lieviti produttori di etanolo, della specie dei Saccharomyces.
Penicillium, Aspergillus e Rhizopus sono usati per i latticini, la carne e prodotti a base di soia.
Se fatti correttamente da ingredienti sicuri e sani, i cibi fermentati raramente sono pericolosi4. Ciò nonostante, alcuni formaggi e cibi fermentati a bassa acidità possono essere contaminati da Listeria
monocytogenes, Salmonella, Clostridium botulinum o altri patogeni di origine alimentare5,6.
L’alcol (ad esempio, vino, birra e liquori) e il sale (ad esempio, salsa di soia o kimchi) sono costituenti intrinseci di alcuni alimenti fermentati e dovrebbero essere consumati con moderazione.
Istamina, tiramina e altre ammine biogene sono formate da alcuni batteri lattici tramite la decarbossilazione degli amminoacidi durante la fermentazione di formaggi, carni, verdure, semi di soia e vino7. Queste ammine, se i nostri sistemi di detossicazione non sono molto efficienti, possono causare effetti come l’emicrania8.
Nonostante queste contrindicazioni, è una tecnica che può migliorare le proprietà degli alimenti trasformando materie prime insipide in prodotti nutrienti e appetibili. Inoltre, può anche migliorare la sicurezza alimentare e la qualità nutritiva rimuovendo sostanze tossiche o composti anti nutritivi dalle materie prime. Un esempio è la rimozione di composti tossici durante la fermentazione di cereali, legumi e tuberi.
Durante le fermentazioni a lievitazione naturale, alcuni batteri lattici facilitano la degradazione dei fitati, composti presenti nei cereali che riducono l’assorbimento nel tratto gastrointestinale di calcio, magnesio e zinco9.
Inoltre, la fermentazione riduce la concentrazione di monosaccaridi e disaccaridi ipercalorici come glucosio, saccarosio e fruttosio presenti nel latte, carne e verdure. La riduzione degli zuccheri riduce l’indice glicemico10,11 e migliora la tollerabilità alimentare. Nei cibi contenenti polifenoli, la conversione di composti fenolici da parte dei lattobacilli11 aumenta la biodisponibilità di flavonoidi, tannini e altri composti bioattivi12,13.
Insomma, i benefici sono tanti e seppur i microrganismi contenuti nei cibi fermentati non sopravvivono a lungo nell’intestino, la colonizzazione a breve termine è sufficiente per sintetizzare composti bioattivi e inibire i patogeni intestinali.
Secondo alcuni studi, gli alimenti fermentati possono influenzare la composizione del microbiota intestinale14 e se consumati durante la prima infanzia riducono il rischio di dermatiti atopiche e allergie15.
Insomma, come abbiamo sempre detto una alimentazione sana è caratterizzata essenzialmente da equilibrio e inserire nella nostra alimentazione in maniera equilibrata i prodotti fermentati non può che fare bene alla nostra salute. La cosa importante è che siano prodotti sicuri.
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Nel mio precedente articolo https://specialistanutrizionista.it/blog/indice-o-carico-glicemico/ vi avevo parlato della differenza tra indice glicemico e carico glicemico.
Vi avevo detto che l’indice glicemico rappresenta la capacità di un determinato alimento di innalzare la glicemia, ossia la quantità di glucosio nel sangue, dopo il pasto rispetto a uno standard di riferimento che è il glucosio puro oppure il pane bianco.
L’indice è espresso con una scala da 0 a 100.
Il glucosio funge da punto di riferimento e ha un indice glicemico pari a 100.
La scala di valori dell’indice glicemico viene suddivisa in:
indice glicemico basso: da 0 a 55
indice glicemico intermedio: da 56 a 69
indice glicemico elevato: da 70 in su.
E vi avevo fatto presente come non sia possibile basare la nostra alimentazione solo sull’indice glicemico di un alimento perché quest’ultimo dipende da vari fattori.
Rileggendo l’articolo e grazie all’intervento prezioso di chi mi segue sulla pagina Facebook, mi sono accorta di averne elencati molti ma di essermene dimenticata uno essenziale ossia la temperatura. L’alta temperatura infatti innalza l’indice glicemico di un alimento. Vediamo perché.
La maggior parte degli zuccheri che l’uomo consuma, in genere o almeno lo si spera, sono zuccheri complessi appartenenti alla famiglia delle amilacee chiamate così appunto perché composti essenzialmente da amido.
Quando viene sottoposto ad alte temperatura la struttura dell’amido si modifica, gelatinizzandosi e aumentando l’indice glicemico dell’alimento.
Ecco perché più cuociamo un alimento, più la temperatura si alza e più il suo indice glicemico sarà alto.
Quando l’alimento si raffredda, l’amido si modifica nuovamente e per un processo che viene chiamato retrogradazione ritorna in parte alla struttura molecolare precedente. Dico in parte perché ovviamente il processo di retrogradazione non provoca una reversibilità totale del processo di gelificazione.
In ogni caso, il raffreddamento determina una parziale riduzione dell’indice glicemico. In altre parole cosa significa?
La pasta al dente avrà un indice glicemico più basso della pasta cotta per più tempo. La pasta fredda avrà un indice glicemico ancora più basso della pasta calda.
Una patata cotta e lasciata raffreddare avrà un indice glicemico più basso della patata bollente.
Il pane raffermo o tostato avrà un indice glicemico inferiore rispetto al pane fresco e magari caldo.
I popcorn hanno un indice glicemico molto più alto del mais a chicco.
La cottura al microonde aumenta il processo di gelificazione dell’amido a causa delle alte temperature.
Questo succede anche con le pentole a pressione.
La conservazione a basse temperature (in frigo) agevola il processo di retrogradazione. Per cui un piatto di fagioli lasciati in frigorifero avrà un indice glicemico inferiore rispetto ad un piatto di fagioli appena cotto. Mi soffermo su un altro processo industriale che alza notevolmente l’indice glicemico degli alimenti che è la soffiatura dei cereali.
Molti miei pazienti vengono nel mio studio dicendomi: “Dott.ssa ho eliminato completamente il pane. L’ho sostituito con le gallette di riso o mais etc..”.
Purtroppo si è diffusa l’idea, anche a causa del marketing pubblicitario, che le gallette siano dietetiche.
In realtà le gallette ma in generale tutti i cereali soffiati hanno un indice glicemico molto alto.
La soffiatura dei cereali avviene ad altissime temperature e questo aumenta enormemente il processo di gelificazione dell’amido. Inoltre, questo processo impoverisce il cereale di vitamine, minerali etc.
Insomma quello che resta è solo la parte esterna del cereale con un altissimo indice glicemico e con valore nutrizionale pari praticamente a quasi zero.
Come dicevamo non bisogna demonizzare alimenti con alto indice glicemico dalle interessanti qualità nutritive escludendoli dalla dieta. Semplicemente si possono mettere in atto dei piccoli accorgimenti per abbassare il carico glicemico del pasto e uno di questi accorgimenti è mangiare i piatti non dico freddi ma almeno non bollenti. Questo ci fa comprendere anche quanto le chilocalorie sono importanti ma non troppo. Lo stesso alimento con le stesse chilocalorie avrà un impatto sul corpo e sulla glicemia completamente diverso a seconda della sua temperatura e di come viene combinato con altri alimenti che abbassano il suo indice glicemico o meglio il carico glicemico dell’intero pasto.
La piramide alimentare è la rappresentazione grafica della corretta alimentazione che in linea di massima tutti conosciamo.
Seppur ce ne dimentichiamo quando vogliamo perdere peso, tutti sappiamo che ogni giorno dovremmo consumare:
– Cereali: una o due porzioni per pasto sotto forma di pane, pasta, riso, couscous e altri. Preferibilmente
grano intero, poiché la lavorazione normalmente rimuove la fibra e alcuni nutrienti preziosi (Mg, Fe, vitamine, ecc.)1
– Verdure: due o più porzioni per pasto meglio cruda garantire almeno l’assunzione giornaliera di vitamine e minerali.2
– Frutta: una o due porzioni. E’ importante portare a tavola frutta e verdure di tanti colori diversi in modo da garantire un’ampia varietà di antiossidanti e composti protettivi.3
I latticini dovrebbero essere presenti in quantità moderate, meglio se sotto forma di yogurt o fermentati. Sebbene la loro ricchezza in Ca sia importante per la salute delle ossa e del cuore, i latticini possono essere una delle principali fonti di grassi saturi4.
L’olio d’oliva si trova al centro della piramide; esso dovrebbe essere la principale fonte di lipidi alimentari date le sue elevate qualità nutritive. E’ consigliato sia come condimento che nelle cotture visto la sua resistenza alle alte temperature. D’altronde, ci sono tanti lavori scientifici che dimostrano che l’olio d’oliva è inversamente associato ad alcuni tumori ed è noto per influenzare positivamente i lipidi nel sangue 5,6.
Olive, noci e semi sono buone fonti di lipidi, proteine, vitamine, minerali e fibre7. Si consiglia un consumo ragionevole di olive, noci e semi (come a manciata) per uno spuntino sano.
Spezie, erbe aromatiche, aglio e cipolle sono un buon modo per consentire una riduzione dell’uso di sale, uno dei i principali fattori che contribuiscono allo sviluppo di ipertensione tra individui predisposti8.
E’ consigliata un’assunzione giornaliera di 1,5–2 L di acqua (equivalente a sei a otto bicchieri) sebbene tale quantità può variare tra le persone a causa dell’età, attività fisica, circostanze personali e condizioni meteorologiche.
Settimanalmente dovrebbero essere presenti una varietà di proteine di origine vegetale e animale.
Nella vera tradizione mediterranea i piatti, di solito, non contengono alimenti proteici di origine animale come ingrediente principale ma piuttosto come fonte di sapore.
Mentre il pesce e i crostacei, le carni bianche e le uova sono buone fonti di proteine animali, le carni rosse e le carni lavorate (affettati) dovrebbe essere consumate in piccole quantità infatti è stato dimostrato come l’assunzione di tali carni sia associata ad alcune malattie croniche (tumori e malattie cardiovascolari)9,10.
La combinazione di legumi (più di due porzioni) e cereali è una combinazione ideale, sana fonte di proteine vegetali e lipidi11.
Le patate vanno consumate con moderazione12 in quanto hanno un alto indice glicemico e nella tradizione, sono più comunemente preparate fritte.
Nel vertice superiore della piramide ci sono i cibi ricchi di zuccheri e grassi malsani (dolci) che andrebbero consumati occasionalmente. Zucchero, caramelle, pasticcini e bevande come succhi di frutta zuccherati devono essere consumati in piccole quantità e nelle occasioni.
Questi alimenti sono densi di energia e contribuiscono all’aumento di peso. Zuccheri semplici, che sono abbondanti in dolci, pasticcini, succhi di frutta e le bevande analcoliche, sono state associate ad una aumentata comparsa di carie.
Una delle innovazioni più grandi della nuova piramide alimentare sono le raccomandazioni in merito allo stile di vita.
Questi concetti sono rappresentati al di fuori della piramide, ma sono alla sua base e sono:
Moderazione
Le dimensioni delle porzioni dovrebbero essere basate sulla frugalità e sulla moderazione.
Socializzazione
La convivialità è un aspetto importante per il valore sociale e culturale del pasto al di là degli aspetti nutrizionali. In questo senso vanno tenuti presenti diversi fattori legati al cibo (inteso come fatto sociale), come le attività culinarie, i saperi trasmessi di generazione in generazione e il tempo dedicato ai pasti.
Tutti questi aspetti contribuiscono a generare o rafforzare la socialità, la comunicazione e l’identità delle comunità.
Il piacere associato alla convivialità dei pasti può influenzare positivamente i comportamenti alimentari e lo stato di salute.
Attività culinarie
La cosa meravigliosa di questa nuova piramide alimentare è il fatto che si sottolinei la possibilità di dedicare tempo e spazio sufficienti alle attività culinarie, tenendo conto del loro ruolo nei pasti quotidiani, nelle celebrazioni e nelle feste religiose di ogni cultura.
Attività fisica
La pratica regolare di un’attività fisica moderata (almeno 30 minuti durante il giorno) è un fattore importate da associare alla dieta bilanciata che consente di mantenere un peso corporeo sano e fornisce molti altri benefici per la salute.
L’attività fisica non riguarda solo gli sport come il calcio, la danza, il jogging, il ciclismo, ecc.
Ma anche camminare, fare le scale invece di prendere l’ascensore, i lavori domestici, il giardinaggio, ecc. Praticare attività ricreative all’aperto13, e preferibilmente con altri, rende più piacevole e rafforza il senso di comunità.
Riposo adeguato
Anche il riposo durante il giorno (pisolino) e un sonno notturno adeguato fanno parte di uno stile di vita sano ed equilibrato. Prove scientifiche hanno dimostrato che un breve riposo dopo aver mangiato è un’abitudine mediterranea sana e tradizionale che aiuta a promuovere uno stile di vita equilibrato14.
Stagionalità
La preferenza per alimenti stagionali, freschi e poco lavorati, ovviamente consente di avere un maggior apporto di sostanze nutritive e protettive nella dieta.
Attualmente e a causa dello stile di vita moderno, il consumo di cibi freschi viene sostituito da altri alimenti trasformati.
C’è da dire che i progressi nella tecnologia moderna riducono al minimo la perdita di nutrienti e offrono alternative sane15. Soprattutto nel caso dei prodotti freschi, diversi fattori influenzano il loro valore nutrizionale: i metodi di coltivazione utilizzati, la varietà specifica scelta, la maturazione alla raccolta, la manipolazione post-raccolta, lo stoccaggio, l’entità e il tipo di lavorazione e la distanza di trasporto. Pertanto, conoscere e scegliere consapevolmente alimenti di cui si conosce il percorso dal seme alla tavola consente di avere a disposizione alimenti con un alto contenuto di nutrienti.
Per questo è importante la selezione di prodotti locali che aiutano l’ambiente e di cui si conosce l’intera filiera.
Insomma… che dire? Una piramide non è fatta solo dalla base ma anche dalla base e quindi se il valore nutrizionale è importante non meno lo sono tutti gli altri valori e significati che il cibo ha.
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Il termine svezzamento descrive il periodo di tempo in cui si passa progressivamente dall’allattamento esclusivo, che sia al seno o con biberon, all’introduzione di cibi solidi.
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) raccomanda l’allattamento esclusivo al seno per i primi sei mesi di età, e l’allattamento al seno complementare almeno fino al secondo anno di età. Secondo l’OMS, l’introduzione di alimenti complementari dovrebbe essere fatto in sicurezza, al momento giusto e adeguato; dovrebbe iniziare quando l’allattamento al seno esclusivo non può più fornire abbastanza nutrienti ed energia per la crescita e lo sviluppo del bambino1
Il periodo di svezzamento è un momento cruciale nella vita di un bambino poiché non solo comporta una grande quantità di rapidi cambiamenti, ma è anche associato allo sviluppo delle preferenze alimentari, dei comportamenti alimentari e del peso corporeo dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta.
Tradizionalmente, i bambini iniziano il percorso di svezzamento con puree pronte o preparate ad hoc che vengono offerte dal genitore con il cucchiaio.
Negli ultimi 10-15 anni, è andato sempre più prendendo piede anche in Europa un approccio alternativo noto come “svezzamento guidato dal bambino” (BLW) o “autosvezzamento”2,3
Le principali caratteristiche di questo metodo sono che i bambini, una volta acquisiti i requisiti fondamentali per auto-alimentarsi, partecipino ai pasti della famiglia e vengano offerti pezzi di cibo “interi”4.
Il genitore offre il cibo ma è il bambino che guida il percorso di svezzamento (da qui il termine “guidato dal bambino”): è il bambino che decide cosa, quanto e quanto velocemente mangiare5.
Il momento dello svezzamento è un momento cruciale anche nella vita dei genitori e spesso è accompagnato da ansie e paure.
La prima fra tutte quando ci si avvicina al mondo dell’autosvezzamento è il rischio di soffocamento. Questa paura nasce dal fatto che spesso si confonde il soffocamento e il conato.
Il conato è un riflesso involontario che con il passare del tempo si evolve ed è per questo che i nostri bambini a volte ci fanno perdere 10 anni di vita ;).
Fino a sei mesi il riflesso del conato si attiva quando il cibo arriva a 1/3 della lingua, poi questo riflesso si sposta a 2/3 della lingua quando vengono fuori i molari e infine vicino all’ugola nell’individuo adulto.
Il bambino che inizia un percorso di autosvezzamento può avere molti conati perché sta imparando a regolare la quantità di cibo che riesce a masticare e deglutire. Deve fare esperienza!
Gli studi, infatti dimostrano che non ci sono differenze nell’incidenza del soffocamento tra i gruppi di autosvezzamento e quelli di svezzamento tradizionale6
Tuttavia, anche nell’autosvezzamento ci sono delle regole per evitare episodi spiacevoli ossia il cibo deve essere tagliato in un certo modo e alcuni cibi sono proibiti fino alla comparsa dei molari.
Un’altra grande paura quando ci si avvicina al mondo dell’autosvezzamento è: “Starà mangiando abbastanza?”
Già, perché spesso i bambini che vengono autosvezzati inizialmente mangiano poco. Manipolano con le mani ma alla fine alla bocca arriva ben poco cibo.
Innanzitutto, una precisazione da fare è che all’inizio l’introduzione degli alimenti non va a sostituire il latte materno o artificiale che rimane l’alimento principale. Il cibo solido sarà complementare al latte. Man mano che il bambino prenderà confidenza con il cibo solido e mangerà sempre di più, il numero di poppate naturalmente andranno a diminuire.
Se vengono seguite le giuste regole di una sana alimentazione, non ci sono differenze significative di peso tra i bambini autosvezzati e quelli svezzati con il metodo classico7.
Messe un po’ a tacere queste paure, il baby led weaning ha molti vantaggi.
Il bambino mangia insieme a tutta la famiglia in un momento di convivialità (abbiamo visto quanto sia importante la convivialità per gli adulti, figuriamoci per i bambini!) e il non dover preparare mille pasti diversi riduce lo stress del pasto. Inoltre, non essendoci pressioni da parte del genitore (e il bambino che decide quanto, quanto e quanto velocemente) la serenità dei pasti è pressochè assicurata.
Inoltre, si è visto che neonati autosvezzati sono significativamente più sensibili al segnale di sazietà8. Il principio cardine dell’autosvezzamento è infatti l’autoregolazione ossia la capacità di avvertire il senso di sazietà e decidere di smettere di mangiare.
Il baby led weaning non sembra essere preventivo sull’obesità o i disturbi del comportamento alimentare (spesso dovuti a disagi emotivi) ma è sicuramente un primo passo verso un equilibrio alimentare9.
Il gusto, inteso come percezione del sapore degli alimenti inizia ad essere presente già in gravidanza tuttavia il bambino continua a sperimentare i sapori durante l’allattamento e lo svezzamento. Se lo svezzamento viene fatto con gli alimenti che l’intera famiglia mangia (ovviamente è importante una corretta e sana abitudine alimentare familiare) il bambino sarà più portato ad apprezzare quei sapori anche da adulto10.
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Quando ero bambina c’era un piatto che mia nonna faceva spesso e di cui ero ghiotta. In pugliese, lei lo chiamava “lu coppu” ed era una focaccia con farina di semola rimacinata, ripiena di cipolle, olive, capperi e pomodorini. Il profumo di quella pietanza credo sia diffile per me da dimenticare e ogni volta che lo preparo mi basta sentirne l’odore o assaggiarne un piccolo pezzetto per ricordare la sensazione di amorevolezza con cui mia nonna lo preparava per me. Devo dire che ancora oggi quando ho voglia di ricordarla, preparo questo piatto.
Ma perché succede questo? Sarà capitato a molti di assaggiare un determinato cibo o sentirne l’odore e ricordare una particolare situazione, una persona o un’emozione. Il gusto e l’odore del cibo in alcuni casi hanno un potere evocativo straordinario, sia di ricordi belli sia brutti.
La struttura del cervello importante per la formazione dei ricordi è l’ippocampo, che fa parte del sistema limbico. Una complessa struttura del cervello di cui fa parte anche l’ipotalamo e l’amigdala e la cui funzione principale è la regolazione emotiva. Il sistema olfattivo è strettamente collegato al sistema limbico ed è per questo che gli odori si possono intrecciare con l’esperienza di emozioni e ricordi.
Il cibo è essenziale per la sopravvivenza della specie come il sesso. Per cui, per assicurarci la sopravvivenza della specie, la Natura ci ha reso in grado di provare piacere nel compiere degli atti essenziali per noi. In aggiunta, il centro della ricompensa e gratificazione è fisicamente molto vicino al centro della memoria per cui ogni volta che mangiamo qualcosa di piacevole o spiacevole, quella sensazione crea un’impronta di memoria nel cervello.
E così basterà risentire il profumo di quel cibo o il sapore per farci tornare alla mente una situazione, un’emozione, una persona in modo del tutto involontario.
D’altronde non è un caso che tutti i nostri momenti di festa siano accompagnati da cibo e generalmente cibo di tradizione che evoca ricordi e sensazioni.
E’ molto importante sapere che il cibo ha questo potere rievocativo perché i ricordi possono condizionare le nostre scelte alimentari. E così associare i ricordi piacevoli di quando eravamo bambini a piatti equilibrati e sani è il mezzo migliore per favorire scelte alimentari positive da adulti
Cosa è per me la “Nutrizione” e cosa significa Mangiare?
Da biologa e dunque da un punto di vista prettamente fisiologico mangiare significa nutrire il corpo con alimenti sani e dal giusto valore nutrizionale con la misura adeguata ai nostri fabbisogni.
Da biologa sistemica mangiare significa nutrire il corpo e la mente (in senso ampio) di cibo sano e gratificante cercando di raggiungere un equilibrio dinamico che porta verso la salute e il benessere.
Cosa significa?
Mangiare è sicuramente un atto essenziale per vivere e mangiare cibo sano ci permette di prenderci cura di noi e di stare in salute. Tuttavia la nutrizione non è solo una questione organica ma include anche aspetti culturali, sociali, relazionali etc.
In questo modo il cibo acquista un valore in più che il semplice valore nutrizionale e acquisisce il valore di “nutrimento” della persona nei suoi bisogni più profondi.
Nella visione sistemica il disagio nei confronti del cibo o del proprio aspetto, oltre che le patologie, derivano dall’alterazione di un equilibrio che può essere ripristinato prendendo in considerazione tutta la persona sia nei suoi aspetti fisiologici sia psicologici e sociali e che vede la collaborazione attiva del proprio io al ripristino del proprio stato di salute.
Per cui mangiare per me diventa un atto molto intimo e profondo che necessita della consapevolezza non solo del valore nutrizionale di quell’alimento e di ciò che quell’alimento determina a livello fisiologico nel mio corpo, e anche del valore profondo che io do a quell’alimento, al colore di quell’alimento, al suo profumo, al suo sapore e di quello che tutto ciò smuove a livello emozionale dentro di me.