Cibo ed emozioni


Nel mio precedente articolo: https://specialistanutrizionista.it/blog/microbiota-e-controllo-assunzione-cibo-e-sazieta/ ho affrontato il tema della microflora intestinale e di come i batteri del nostro intestino possano influenzare l’assunzione di cibo.

Come ho scritto tuttavia l’assunzione di cibo non è controllata solo da circuito omeostatico ma anche dal centro di ricompensa e gratificazione che è un circuito presente nel nostro cervello responsabile della motivazione, dell’apprendimento, e delle emozioni positive, in particolare quelle che coinvolgono il piacere come componente fondamentale tra cui anche il piacere del cibo.

E a complicare le cose si aggiunge il fatto che questi due meccanismi, circuito omeostatico e di ricompensa e gratificazione, si influenzano tra loro.

Il cibo è una potente ricompensa naturale e l’interazione tra umore, stato emotivo e comportamenti alimentari è complessa. Gli individui possono regolare le loro emozioni e l’umore anche attraverso le scelte alimentari e le quantità di cibo assunte e viceversa1.

Ovviamente, mi occupo della parte alimentare per cui di come il cibo possa alterare il nostro umore e le nostre emozioni tuttavia capite quanto sia importante avere consapevolezza delle nostre emozioni e quanto il lavoro integrato con la figura di uno psicoterapeuta sia essenziale in alcune situazioni (da qui la mia forte volontà di costruire, insieme alle mie colleghe, un centro integrato di psicologia e nutrizione: www.psi-ko.it).

D’altronde si sa che negli esseri umani, il comportamento alimentare è complesso e può essere influenzato anche dalle emozioni.

Emozioni specifiche come rabbia, paura, tristezza e gioia, così come anche altri stati d’animo possono influenzare la risposta alimentare sia in termini di motivazione a mangiare o di scelta di che tipo di cibo mangiare, sia in termini di masticazione, quantità, metabolismo e digestione2,3.

Ogni persona ha sperimentato almeno una volta nella vita un cambiamento nell’assunzione di cibo in risposta allo stress emotivo (in media il 30% un aumento e del 48% una diminuzione dell’appetito).

Non a caso, gli effetti delle emozioni sull’assunzione di cibo sono ampiamente studiati tuttavia a causa della loro variabilità rimane difficile prevedere come un’emozione può influire sul cibo in un dato gruppo di persone.

Le emozioni possono aumentare l’assunzione di cibo in un gruppo di persone oppure diminuire l’assunzione di cibo un altro gruppo e non solo…emozioni diverse possono aumentare o diminuire il consumo di cibo nello stesso gruppo di individui.

Ad esempio, la noia potrebbe essere associata ad un aumento dell’appetito, ma la tristezza ad una diminuzione4.

Per cui parlare di come le emozioni influenzino l’assunzione di cibo e viceversa è molto complicato perciò torniamo a parlare della componente biologica e alimentare.

Sebbene ci siano molti sistemi neurotrasmettitori all’interno della regione del cervello responsabile del sistema di ricompensa e gratificazione, gli studi sugli effetti gratificanti del cibo si sono concentrati su tre sistemi di segnale, ossia gli oppioidi endogeni5, la dopamina7 e la serotonina.

Vediamo come questi neurotrasmettitori siano in grado di modulare l’assunzione di cibo.

E’ stato visto che una proprietà importante degli oppiacei è quella di rafforzare il comportamento.

Infatti si è visto che l’iniezione sistemica di morfina provoca una maggiore assunzione di cibo nei ratti.

Analizzando il tipo di cibo scelto sotto l’influenza degli oppiacei, si è riscontrato che la morfina stimola l’ingestione di alimenti ricchi di zuccheri e grassi6.

Un altro neurotrasmettitore che sembra essere coinvolto nella risposta di ricompensa del cibo è la dopamina7. Il consumo di cibo, alcuni tipi più e altri meno, porta alla produzione di dopamina, che a sua volta attiva i centri di ricompensa e piacere nel cervello.

Un individuo mangerà ripetutamente un alimento particolare per provare la sensazione positiva di gratificazione8.

Questo tipo di comportamento ripetitivo di assunzione di cibo porta all’attivazione di percorsi di ricompensa al livello del cervello che alla fine prevalgono sugli altri segnali di sazietà e fame. Quindi, l’abitudine di gratificazione attraverso un determinato cibo porta all’eccesso di quel cibo.

È interessante notare che i cibi altamente appetibili attivano le stesse regioni di ricompensa e piacere nel cervello che vengono attivate dalle droghe, suggerendo che alcuni tipi di cibi possano attivare un meccanismo di dipendenza che può portare poi a eccesso di cibo e obesità.

D’altronde, si sa che la dopamina, che attiva direttamente i centri di ricompensa e piacere, influenza sia l’umore che l’assunzione di cibo. Insomma è lei in parte la responsabile del legame tra psicologia e comportamento alimentare.

È stato scoperto, inoltre, che la leptina (ormone responsabile della diminuizione della sensazione della fame e coinvolto nel circuito omeostatico) riduce il rilascio di dopamina durante l’alimentazione, suggerendo che la leptina sopprime la ricompensa indotta dall’alimentazione.

Vedremo successivamente tuttavia come questo segnale venga poi by-passato determinando un aumentato consumo di cibo.

Un terzo neurotrasmettitore che può contribuire alla regolazione dell’appetito è la serotonina. Diverse osservazioni suggeriscono che la serotonina possa essere coinvolta nel controllo dell’assunzione di cibo come segnale di sazietà9.

I livelli di serotonina cerebrale sono influenzati da molti fattori, inclusi i livelli circolanti di triptofano e alcuni macronutrienti10.

Nell’ipotalamo, la serotonina inibisce l’espressione del neuropeptide Y (la cui funzione è quella di inibire le contrazioni intestinali, le secrezioni gastriche e intestinali) riducendo la sensazione della fame9.

Si discute se la serotonina regoli in modo specifico l’assunzione di carboidrati11 e/o l’assunzione di grassi.

Il consumo di cibo quindi è regolato da un sistema complesso di interconnessioni e interferenze tra il sistema omeostatico e il sistema di ricompensa e gratificazione e il tipo di cibo che scegliamo può modulare questa regolazione.

Ripeto tuttavia che può avvenire anche il contrario ossia che le emozioni che proviamo modulino il sistema di ricompensa determinando la propensione ad assumere determinati cibi o aumentare o diminuire la quantità dei cibi assunti. Insomma, davvero tutto un equilibrio dinamico molto delicato.

L’aumento dell’appetito, anche in modo compulsivo che si ha in alcuni casi, in seguito all’assunzione di cibi appetibili oltre all’attivazione del sistema di ricompensa, può essere dovuto anche ad una risposta smussata ai segnali di sazietà.

Ciò può avvenire in diversi modi:

1) una maggiore espressione dei segnali di fame o dei loro recettori

2) una ridotta espressione dei segnali di sazietà e dei loro recettori.

Alcuni dei peptidi della fame come il neuropeptide Y sono sovraregolati dopo un periodo di alimentazione con grassi, in linea con una crescente fame di cibo grasso.

Allo stesso tempo, alcuni segnali di sazietà sono sottoregolati12, riducendo così la risposta di sazietà a un pasto grasso.

Tali cambiamenti nell’espressione del peptide potrebbero spiegare il consumo eccessivo di cibo. Altri segnali di fame come la grelina sono sotto-regolati in risposta all’assunzione di grasso13.

Una dieta ricca di grassi, d’altra parte, sovraregola diversi segnali di sazietà come la leptina e l’ insulina.

Ecco perché quando mangiamo un pasto particolarmente grasso ci saziamo prima ed ecco perché le diete chetogeniche (che puntano su un aumento dei cibi grassi nell’alimentazione) possono determinare una perdita di peso importante.

Tuttavia, poiché un regime alimentare appetibile porta a mangiare troppo nonostante il cambiamento nei segnali di appetito per limitare l’assunzione di cibo, ci deve essere una risposta smussata ai segnali di sazietà o l’assunzione di cibo è stimolata da altri fattori che agiscono all’interno del sistema di ricompensa.

Negli individui obesi sono state osservate concentrazioni sieriche elevate di leptina.

C’era anche un’incapacità della leptina di inibire l’assunzione di cibo in tali individui, una fenomenale “resistenza alla leptina14.

Si è scoperto che una dieta ricca di grassi causava un aumento sostenuto della leptina circolante nei topi e che i livelli di leptina riflettevano la quantità di grasso nel corpo.

Tuttavia, nonostante l’aumento dei livelli di leptina, gli animali con una dieta ricca di grassi sono diventati obesi, limitando l’azione della leptina.

Inoltre si è visto che in questi individui la leptina ha una ridotta capacità di oltrepassare la barriera emato-encefalica impedendo di svolgere la sua funzione inibente la fame.

Anche per l’isulina succede la stessa cosa. Il passaggio dell’insulina nel cervello sembra essere un evento chiave nella sazietà indotta da insulina. Ci sono regioni specifiche nel cervello, ad es. l’ipotalamo e il retroencefalo, dove avviene la penetrazione dell’insulina15.

Che una dieta appetibile possa ridurre la penetrazione di insulina attraverso la barriera ematoencefalica è stato dimostrato in animali alimentati con una dieta ad alto contenuto di grassi per diverse settimane.

Ciò potrebbe contribuire allo sviluppo dell’obesità negli individui che seguono una dieta ricca di grassi.

Si potrebbe ipotizzare che una dieta ricca di grassi provochi una resistenza periferica all’insulina, che trasferisce il glucosio al cervello.

A poco a poco la barriera emato-encefalica diventa resistente alla penetrazione dell’insulina e di conseguenza l’effetto saziante dell’insulina viene perso.

Potrei scrivere per ore su questo argomento. In questo articolo ho cercato di semplificare tuttavia ogni individuo è un meraviglioso sistema talmente complesso che è difficile descrivere a parole ogni singolo meccanismo e che interagisce e interferisce con gli altri meccanismi e che regolano il corpo umano e il comportamento alimentare.

 

  1. Morris,W.N.,andReilly,N.P.(1987).Towardtheself-regulationofmood:theory and research. Emot. 11, 215–249.doi:10.1007/BF01001412
  2. Ekman, P. (1992). An argument for basic emotions. Cognition & Emotion, 6, 169–200.
  3. Krebs, H., Macht, M., Weyers, P., Weijers, H.-G., & Janke, W. (1996). Effects of stressful noise on eating and non-eating behavior in rats. Appetite, 26, 193–202.
  4. Pudel, V., & Richter, M. (1980). Psychosoziale bewertung der erna¨ hrung. Eine repra¨ sentativ-erhebung in der bundesrepublik deutschland. In D. G. f. Erna¨ hrung (Ed.), Erna¨ hrungsbericht. Frankfurt: Deutsche Gesellschaft fu¨ r Erna¨ hrung.
  5. Zhang, M., C. Balmadrid & A. E. Kelley: Nucleus accumbensopioid, GABaergic, and dopaminergic modulation of palatablefood motivation: contrasting effects revealed by a progressiveratio study in the rat. Behav. Neurosci. 2003, 117, 202–211.
  6. Yeomans, M. R., R. W. Gray, C. J. Mitchell & S. True: Independenteffects of palatability and within-meal pauses on intake andappetite ratings in human volunteers. Appetite 1997, 29, 61–76.
  7. Wang, G. J., N. D. Volkow, J. Logan, N. R. Pappas, C. T. Wong, W.Zhu, N. Netusil & J. S. Fowler: Brain dopamine and obesity.Lancet 2001, 357, 354–357
  8. Rangel, A.(2013).Regulationofdietarychoicebythedecision-makingcircuitry. Nat.Neurosci. 16, 1717–1724.doi:10.1038/nn.3561.
  9. Lawton, C. L., J. K. Wales, A. J. Hill & J. E. Blundell: Seroton-inergic manipulation, meal-induced satiety and eating pattern:effect of fluoxetine in obese female subjects. Obes. Res. 1995, 3,345–356.
  10. Halford, J. C. & J. E. Blundell: Separate systems for serotonin andleptin in appetite control.
  11. Wurtman, R. J. & J. J. Wurtman: Brain serotonin, carbohydrate-craving, obesity and depression. Obes. Res. 1995, 3, Suppl 4,477S–480S. Ann. Med. 2000, 32, 222–232.
  12. Huang, X. F., X. Xin, P. McLennan & L. Storlien: Role of fatamount and type in ameliorating diet-induced obesity: insightsat the level of hypothalamic arcuate nucleus leptin receptor,neuropeptide Y and pro-opiomelanocortin mRNA expression.Diabetes Obes. Metab. 2004, 6, 35–44.
  13. Moesgaard, S. G., B. Ahren, R. D. Carr, D. X. Gram, C. L. Brand &F. Sundler: Effects of high-fat feeding and fasting on ghrelin ex-pression in the mouse stomach. Regul. Pept. 2004, 120, 261–267.Montague, C. T., I. S. Farooqi, J. P. Whitehead, M. A. Soos, H.
  14. Frederich, R. C., A. Hamann, S. Anderson, B. Lollmann, B. B.Lowell & J. S. Flier: Leptin levels reflect body lipid content inmice: evidence for diet-induced resistance to leptin action. Nat.Med.1995, 1, 1311–1314.
  15. Banks, W. A.: Is obesity a disease of the blood-brain barrier?Physiological, pathological, and evolutionary considerations.Curr. Pharm. Des. 2003, 9, 801–809.

Babywearing e Consulente del Portare®


Sempre più si vedono donne portare il proprio bambino. Ma portare non è affatto una moda!

In passato portare i propri bambini era la normale modalità di accudimento e anche un metodo indispensabile per poter svolgere le attività quotidiane, senza mettere in pericolo il cucciolo.

Una modalità di accudimento ancestrale che rispetta i bisogni fisiologici del cucciolo di uomo: infatti, a ben vedere, i cuccioli di uomo hanno mantenuto tutta una serie di riflessi che indicano la necessità di vicinanza del genitore. Per esempio il riflesso di prensione oppure la cifosi della colonna vertebrale e la composizione del latte che richiede un allattamento frequente.

D’altronde, oggi come in passato lasciare un neonato solo significa esporlo a morte certa.

Portare è anche un metodo direi quasi indispensabile che consente al genitore di accudire i propri bambini avendo le mani libere per poter svolgere delle attività.

Non parlerò dei vantaggi pratici che diciamo sono abbastanza immediati. Avere le mani libere e poter lavorare, cucinare, pulire casa, fare una passeggiata o accudire un secondo o terzo figlio è il primo vantaggio che spesso si nota portando i propri bambini. E devo dire che anche io ho amato molto il portare perché mi ha permesso di fare tante cose pratiche che altrimenti sarebbero state impossibili.

Poi però ci sono altri aspetti che seppur non immediati rendono la pratica del portare magica e meravigliosa.

Il contatto aumenta i livelli di ossitocina non solo nella madre ma anche nel padre aumentando la sincronia e il coinvolgimento1.

L’ossitocina è una molecola meravigliosa che porta con sé numerosi vantaggi.

Infatti, è stato riscontrato che livelli più elevati di ossitocina materna sono correlati a comportamenti interattivi più positivi2. Inoltre, si è vista una correlazione negativa tra ossitocina e livelli di ansia3. (non credo sia facile dimenticare l’odore del neonato che si porta in fascia e quella sensazione di benessere. Immagino sia così anche per il neonato)

Il contatto è stato dimostrato essere un fattore positivamente correlato all’aumento di peso, ad un numero significativamente inferiore di apnee, ad una minor propensione all’alimentazione artificiale e sono state riscontrate differenze significative anche nel modo in cui i bambini piangono e dormono.

I bambini che sono a contatto hanno meno probabilità di piangere in modo continuo e maggiori probabilità di dormire bene rispetto ai bambini non a contatto4.

Il contatto è stato dimostrato migliorare lo sviluppo cognitivo del bambino e le funzioni esecutive da 6 mesi a 10 anni. Entro i 10 anni di età, i bambini che hanno ricevuto un accudimento a contatto hanno mostrato una risposta allo stress attenuata, un sonno organizzato e un migliore controllo cognitivo5.

Seppur sono necessari ulteriori studi, sembra che il contatto riduca le coliche6 (parleremo delle coliche in un altro articolo! ;)).

Insomma i benefici di “indossare il bambino in braccio” o meglio del Babywearing sono davvero tanti.

L’importante tuttavia è farlo in sicurezza.

In passato, questa attenzione non c’era e i bambini venivano portati con tanti supporti a volte adeguati alla fisiologia del neonato e altre volte no.

Oggi l’attenzione alla pratica del portare è aumentata e esistono tantissime tecniche di legatura e tantissimi supporti che devono essere adeguatamente scelti in base al momento della crescita e alle esigenze del genitore e del bambino.

Ecco perché sempre più prende piede la Consulente del Portare® o Babywearing Educator®.

Una figura che promuove la genitorialità a contatto e che aiuta i genitori ad avvicinarsi a questa pratica in sicurezza e con serenità.

Anche perché per una buona pratica del portare è necessario seguire delle regole.

E’ molto importante utilizzare un supporto idoneo che sia ergonomico come può essere la fascia o anche dei marsupi che rispettino alcune caratteristiche o dei Mei Tai etc. Esistono tantissimi supporti che si adattano alle diverse età ed esigenze di mamma e bambino. Tutti i supporti tuttavia devono avere dei tessuti traspiranti e colorazione atossica senza nessun inserto metallico.

Inoltre, è importante imparare a fare delle legature sicure che rispettivo la fisiologia del neonato nelle varie fasi di crescita e che distribuiscano correttamente il peso del bambino. Insomma, una buona pratica del portare passa dalla conoscenza e dalla competenza.

Quando ho partorito mia figlia, avevo già contattato una Consulente del Portare per comprendere meglio questa pratica, sapendone i vantaggi a livello emotivo e immaginando la necessità pratica di tornare a lavoro a pochi mesi dopo il parto. Mai mi sarei immaginata di innamorarmi della magia e della ritualità di quei gesti che ci hanno accompagnate tutti i giorni fino a quando mia figlia ha imparato a camminare e che fanno capolino saltuariamente ora, solo per ritornare a quell’odore e a quella coccola che credo né io né lei scorderemo mai.

E dai quei gesti, da quella ripetizione silenziosa e attenta delle legature e da quell’odore di tenerezza e amore che ho deciso di diventare Consulente del Portare®.

 

  1. Oxytocinand early parent-infant interactions: A systematic review.

Scatliffe N, Casavant S, Vittner D, Cong X.

 

  1. Maternal mental health moderates the relationship between oxytocin and interactive behavior. Samuel S.
  2. Increase in oxytocin from skin-to-skin contact enhances development of parent-infant relationship.

Vittner D

  1. Infant Crying: Nature, Physiologic Consequences, and Select Interventions

Ludington-Hoe, Susan, Cong, Xiaomei, Hashemi, Fariba

  1. Maternal-Preterm Skin-to-Skin Contact Enhances Child Physiologic Organization and Cognitive Control Across the First 10 Years of Life

Ruth Feldman et al.

  1. Feasibility of using kangaroo (skin-to-skin) care with colicky infants

Marsha L Cirgin Ellett  et al.

 

 

Il cibo e i ricordi


Quando ero bambina c’era un piatto che mia nonna faceva spesso e di cui ero ghiotta. In pugliese, lei lo chiamava “lu coppu” ed era una focaccia con farina di semola rimacinata, ripiena di cipolle, olive, capperi e pomodorini. Il profumo di quella pietanza credo sia diffile per me da dimenticare e ogni volta che lo preparo mi basta sentirne l’odore o assaggiarne un piccolo pezzetto per ricordare la sensazione di amorevolezza con cui mia nonna lo preparava per me. Devo dire che ancora oggi quando ho voglia di ricordarla, preparo questo piatto.

Ma perché succede questo? Sarà capitato a molti di assaggiare un determinato cibo o sentirne l’odore e ricordare una particolare situazione, una persona o un’emozione. Il gusto e l’odore del cibo in alcuni casi hanno un potere evocativo straordinario, sia di ricordi belli sia brutti.

La struttura del cervello importante per la formazione dei ricordi è l’ippocampo, che fa parte del sistema limbico. Una complessa struttura del cervello di cui fa parte anche l’ipotalamo e l’amigdala e la cui funzione principale è la regolazione emotiva. Il sistema olfattivo è strettamente collegato al sistema limbico ed è per questo che gli odori si possono intrecciare con l’esperienza di emozioni e ricordi.

Il cibo è essenziale per la sopravvivenza della specie come il sesso. Per cui, per assicurarci la sopravvivenza della specie, la Natura ci ha reso in grado di provare piacere nel compiere degli atti essenziali per noi. In aggiunta, il centro della ricompensa e gratificazione è fisicamente molto vicino al centro della memoria per cui ogni volta che mangiamo qualcosa di piacevole o spiacevole, quella sensazione crea un’impronta di memoria nel cervello.

E così basterà risentire il profumo di quel cibo o il sapore per farci tornare alla mente una situazione, un’emozione, una persona in modo del tutto involontario.

D’altronde non è un caso che tutti i nostri momenti di festa siano accompagnati da cibo e generalmente cibo di tradizione che evoca ricordi e sensazioni.

E’ molto importante sapere che il cibo ha questo potere rievocativo perché i ricordi possono condizionare le nostre scelte alimentari. E così associare i ricordi piacevoli di quando eravamo bambini a piatti equilibrati e sani è il mezzo migliore per favorire scelte alimentari positive da adulti

Nutrizione Sistemica


Cosa è per me la “Nutrizione” e cosa significa Mangiare?

Da biologa e dunque da un punto di vista prettamente fisiologico mangiare significa nutrire il corpo con alimenti sani e dal giusto valore nutrizionale con la misura adeguata ai nostri fabbisogni.

Da biologa sistemica mangiare significa nutrire il corpo e la mente (in senso ampio) di cibo sano e gratificante cercando di raggiungere un equilibrio dinamico che porta verso la salute e il benessere.

Cosa significa?

Mangiare è sicuramente un atto essenziale per vivere e mangiare cibo sano ci permette di prenderci cura di noi e di stare in salute. Tuttavia la nutrizione non è solo una questione organica ma include anche aspetti culturali, sociali, relazionali etc.

In questo modo il cibo acquista un valore in più che il semplice valore nutrizionale e acquisisce il valore di “nutrimento” della persona nei suoi bisogni più profondi.

Nella visione sistemica il disagio nei confronti del cibo o del proprio aspetto, oltre che le patologie, derivano dall’alterazione di un equilibrio che può essere ripristinato prendendo in considerazione tutta la persona sia nei suoi aspetti fisiologici sia psicologici e sociali e che vede la collaborazione attiva del proprio io al ripristino del proprio stato di salute.

Per cui mangiare per me diventa un atto molto intimo e profondo che necessita della consapevolezza non solo del valore nutrizionale di quell’alimento e di ciò che quell’alimento determina a livello fisiologico nel mio corpo, e anche del valore profondo che io do a quell’alimento, al colore di quell’alimento, al suo profumo, al suo sapore e di quello che tutto ciò smuove a livello emozionale dentro di me.

 

Stress e Alimentazione. “Quanto più tempo risparmiamo, tanto meno ne abbiamo” (H. Rosa)


Lo stress è un fattore naturale e inevitabile della vita ma lo stress eccessivo e prolungato può portare a seri danni alla nostra salute oltre a determinare un aumento di peso. Infatti, è stato dimostrato che le persone sotto stress tendono a mangiare di più, male e troppo in fretta.

Il corpo umano è programmato per affrontare le minacce esterne secondo un meccanismo di “attacco-fuga” ma il mondo in cui viviamo ora è molto diverso da quello di migliaia di anni fa dove gli agenti stressanti riguardavano le necessità primarie di sopravvivenza fisica e a volte capita che gli agenti stressanti creino un stress continuo ed eccessivo che può compromettere la nostra salute attraverso cambiamenti deleteri nella scelta del cibo [1].

L’esposizione acuta o cronica allo stress determina una serie di risposte fisiologiche e comportamentali che alterano lo stato metabolico nell’uomo [2]

Lo stress induce l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con aumento della sintesi di glucocorticoidi  (il principale ormone glucocorticoide che tutti noi conosciamo è il cortisolo la cui secrezione è indotta dallo stress sia fisico che emotivo) e della disponibilità di glucosio.

I glucocorticoidi regolano anche l’accumulo e lo stoccaggio del grasso corporeo e possono aumentare l’appetito con conseguente aumento di peso corporeo.

Inoltre, l’esposizione acuta e cronica allo stress può alterare sia la quantità sia la qualità delle calorie consumate e interagire (argomento da me molto amato) con le emozioni [3].

Quando sotto stress circa il 35-60% delle persone riferisce di mangiare più calorie totali, mentre circa il 25-40% riferisce di mangiare di meno [4]

Inoltre, lo stress altera la selezione del cibo, si scelgono cibi altamente appetibili (cioè cibi gustosi e   densi di calorie contenenti elevate quantità di zuccheri, altri carboidrati e / o grassi) [5] e questo cambiamento può verificarsi anche in molte persone che riducono la loro totale assunzione calorica durante lo stress.

La scelta verso quello che viene definito “Comfort food” è dettata dal fatto che l’assunzione di cibo appetibile riduce le risposte allo stress, fornendo in questo modo un potenziale mezzo di “auto-medicazione” per alleviare lo stress.

L’assunzione di cibo gustoso e / o ricco di carboidrati è associata anche ad un miglioramento dell’umore, diminuzione dello stress percepito e ridotta concentrazione plasmatica di cortisolo [6].

E poi… passando all’argomento che mi appassiona e su cui organizzo spesso corsi in tutta Italia, esistono forti legami tra l’ingestione di alimenti ricchi di grassi e / o zucchero e la modulazione degli stati emotivi.

L’assunzione di cibo appetibile può alleviare le emozioni negative attenuando i segni di stress e ansia dopo l’esposizione a fattori stressanti o condizioni di stress cronico imprevedibile [7].

Tali reazioni emotive positive a cibi gustosi e densi di energia, comprese le loro azioni gratificanti ed edonistiche, sono considerate svolgere un ruolo significativo nell’eccesso di cibo e nello sviluppo dell’obesità [8].

Mentre l’assunzione di cibi appetibili può attenuare le emozioni negative e gli stati d’animo a breve termine, il loro consumo eccessivo che porta ad un aumento della massa del tessuto adiposo e dell’obesità può aumentare la vulnerabilità alla depressione e all’ansia [9].

Lo stress ha effetti profondi e multiformi sull’assunzione di cibo e sul peso corporeo, che spesso, come abbia visto sono stimolanti tuttavia la paura dello stress anticipato inibisce l’assunzione di cibo [10] e lo stress, la paura e l’ansia sostenuti sono stati collegati alla cessazione prolungata dell’alimentazione e dell’anoressia nervosa [11].

Questa soppressione dell’alimentazione è adattiva e promuove la sopravvivenza quando la paura è innescata da un pericolo reale (cioè, evitare il pericolo imminente ha la priorità sull’alimentazione).   I meccanismi neurali che controllano l’equilibrio tra fame e paura sono quindi importanti nella funzione normale e nella malattia.

Per concludere, il nostro modo di alimentarci è determinato da tantissimi fattori che non sono legati solo al valore nutrizionale del cibo. Rivolgersi ad un Nutrizionista Sistemico permette di valutare tutti gli aspetti della nutrizione e lavorare su più livelli per recuperare il benessere fisico ed emozionale.

 

  1. Oliver, G., J. Wardle, and E.L. Gibson, Stress and food choice: a laboratory study. Psychosom Med, 2000. 62(6): p. 853-65.
  2. Dallman, M.F., et al., Chronic stress and obesity: a new view of “comfort food”. Proc Natl Acad Sci U S A, 2003. 100(20): p. 11696-701.
  3. Epel, E., et al., Stress may add bite to appetite in women: a laboratory study of stress-induced cortisol and eating behavior. Psychoneuroendocrinology, 2001. 26(1): p. 37-49.
  4. Oliver, G. and J. Wardle, Perceived effects of stress on food choice. Physiol Behav, 1999. 66(3): p. 511-5.
  5. Groesz, L.M., et al., What is eating you? Stress and the drive to eat. Appetite, 2012. 58(2): p. 717-21.
  6. Gibson, E.L., Emotional influences on food choice: sensory, physiological and psychological pathways. Physiol Behav, 2006. 89(1): p. 53-61.
  7. Pecoraro, N., et al., Chronic stress promotes palatable feeding, which reduces signs of stress: feedforward and feedback effects of chronic stress. Endocrinology, 2004. 145(8): p. 3754-62.
  8. Fulton, S., Appetite and reward. Front Neuroendocrinol, 2010. 31(1): p. 85-103.
  9. Hryhorczuk, C., S. Sharma, and S.E. Fulton, Metabolic disturbances connecting obesity and depression. Front Neurosci, 2013. 7: p. 177.
  10. Schachter, S., R. Goldman, and A. Gordon, Effects of fear, food deprivation, and obesity on eating. J Pers Soc Psychol, 1968. 10(2): p. 91-7.
  11. Kaye, W., Neurobiology of anorexia and bulimia nervosa. Physiol Behav, 2008. 94(1): p. 121-35.

 

 

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