Nausea in gravidanza: aiuto dalla medicina alternativa


Nausea e vomito sono un problema comune per le donne in gravidanza (1).

 

La causa principale di questo problema è sconosciuta ed è probabilmente dovuta a diversi fattori tra i quali i cambiamenti ormonali hanno il ruolo più importante (2).

 

Generalmente questi disturbi iniziano nella sesta/ottava settimana di gravidanza e terminano intorno alla dodicesima settimana, anche se in alcune donne i suoi sintomi possono persistere fino alla ventesima settimana (3).

 

Sono disturbi fastidiosi che possono determinare un aumento del rischio di stress materno, ansia e depressione, bassa qualità della vita, e riduzione delle funzioni fisiche e sociali materne (4).

 

La ricerca ha dimostrato che il trattamento preventivo all’inizio della gravidanza riduce la gravità dei sintomi e può avere un profondo effetto sulla salute della donna incinta e sulla qualità della vita.

 

Tuttavia, molte donne non ricevono informazioni adeguate sui cambiamenti dello stile di vita o sul trattamento farmacologico o complementare tempestivo.

 

Oltre alla dieta e alla modifica dello stile di vita, la medicina complementare è, infatti, un interessante aiuto per molte donne, tanto che più dell’87% delle donne utilizza almeno un metodo di medicina complementare e alternativa durante la gravidanza.

 

Vediamo quali sono, secondo gli studi disponibili, i rimedi più efficaci:

 

Zenzero (5). Lo zenzero è un tubero con grandi proprietà medicinali. È utilizzato per il trattamento della nausea in gravidanza, ma anche per alleviare i dolori articolari, per il trattamento di malattie infiammatorie come l’artrite reumatoide, l’osteoartrite, per migliorare i sintomi della sindrome premestruale, per ridurre la nausea e il vomito dopo interventi chirurgici e dopo chemioterapia;

 

Menta piperita(6). La menta è un’erba medicinale nota e importante che viene utilizzata in medicina come riduttore della nausea postoperatoria e come agente antisettico, analgesico e anticoagulante. Un meccanismo proposto per i suoi effetti antiemetici e antispasmodici sul sistema gastrointestinale è l’inibizione delle contrazioni muscolari indotte dalla serotonina. La menta piperita agisce anche come anestetico sulla parete dello stomaco che blocca la nausea e il vomito. 

 

Generalmente, questo rimedio viene proposto come aromaterapia poiché ne è sconsigliata l’ingestione a causa del suo effetto emmenagogo ossia in grado di stimolare l’afflusso di sangue nell’area pelvica e nell’utero.

 

Limone (7). Il limone è ricco di composti fenolici, vitamine, minerali, carotenoidi e ha proprietà analgesiche, antisettiche, antiemetiche e diuretiche. Diversi studi hanno dimostrato che l’inalazione di olio essenziale di limone può determinare una significativa riduzione della nausea e del vomito gravidico.

 

Cardamomo (8)Il cardamomo è un’erba profumata con una lunga storia nel trattamento dei sintomi gastrointestinali e del mal di stomaco. L’olio estratto dai semi di cardamomo è una combinazione di terpeni, esteri, flavonoidi e altri composti.

 

Questa erba ha benefici medici per il trattamento dell’asma e ha proprietà anti-iperlipidemiche, antisettiche, antispasmodiche, antigonfiore e diuretiche. L’aromaterapia con l’inalazione di oli di cardamomo è efficace nell’alleviare la nausea causata dalla chemioterapia nei pazienti con cancro. È stato dimostrato inoltre  dimostrato che l’assunzione di cardamomo riduce significativamente la gravità della nausea e vomito gravidico.

 

Pericardio 6 (Nei Guan) (9). La digitopressione è un metodo non medicinale per ridurre la nausea e il vomito. Il punto P6, è situato due pollici sopra la piega distale del polso interno.

 

Il meccanismo alla base dell’efficacia della digitopressione è sconosciuto, ma la stimolazione transcutanea a bassa frequenza può modificare la trasmissione dei neurotrasmettitori.

 

Inoltre, la digitopressione ha un effetto inibitorio sulla secrezione di acidi gastrici. 

 

KID21 (10). Il punto KID21 si trova appena sotto lo sterno su entrambi i lati al centro dello stomaco. 

 

Come dico sempre, è essenziale rivolgersi ad un professionista prima di assumere qualsiasi pianta soprattutto in gravidanza perché anche le piante possono dare effetti collaterali, a volte, anche molto gravi. 

 

1.Herrell HE. Nausea and vomiting of pregnancy. Am Fam Physician. 2014;89:965–70.

 

2.Taylor T. Treatment of nausea and vomiting in pregnancy. Indep Rev. 2014;37:42–5. 

 

3. Jarvis S, Nelson-Piercy C. Management of nausea and vomiting in pregnancy. BMJ. 2011;342:d3606.

 

4. Soltani A, Kajuri MD, Safavi S, Hosseini F. Frequency and severity of nausea and vomiting in pregnancy and the related factors among pregnant women. [Last accessed on 2015 Apr 07];Iran J Nurs. 2007 19:95–102.

 

5. Thomson M, Corbin R, Leung L. Effects of ginger for nausea and vomiting in early pregnancy: A meta-analysis. J Am Board Fam Med. 2014;27:115–22.

 

6. Alankar S. A review on peppermint oil. [Last accessed on 2015 Apr 07];Asian J Pharma Clin Res. 2009 2:27–33.

 

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8. Ozgoli G, Gharayagh Zandi M, Nazem Ekbatani N, Allavi H, Moattar F. Cardamom powder effect on nausea and vomiting during pregnancy. Complement Med J. 2015;14:1056–76.

 

9. Steele NM, French J, Gatherer-Boyles J, Newman S, Leclaire S. Effect of acupressure by Sea-Bands on nausea and vomiting of pregnancy. J Obstet Gynecol Neonatal Nurs. 2001;30:61–70.

 

10. Naeimi Rad M, Lamyian M, Heshmat R, Jaafarabadi MA, Yazdani S. A randomized clinical trial of the efficacy of KID21 point (Youmen) acupressure on nausea and vomiting of pregnancy. Iran Red Crescent Med J. 2012;14:697–701.

 

Acne e Alimentazione


“Dott.ssa buongiorno, 

ho trovato il suo numero di internet. Ho un problema di acne, ho fatto i dosaggi ormonali ed è tutto a posto. Il ginecologo mi ha detto che potrebbe essere una questione alimentare. Mi può aiutare?”

L’acne è una delle condizioni dermatologiche più comuni nel mondo1. Siamo abituati a pensare che l’acne sia un problema adolescenziale. In effetti, la prevalenza è più alta negli adolescenti e nei giovani adulti e diminuisce dopo i 30 anni. Tuttavia, l’incidenza sopra i 40 anni è in aumento soprattutto nelle donne2

La comprensione della patogenesi dell’acne è ancora in evoluzione tuttavia si sa che i fattori che influiscono sono molteplici e tra questi:

-le influenze genetiche,

-ormonali,

-infiammatorie,

-ambientali.

 

Data la sua implicazione in molti di questi fattori non è difficile pensare che la dieta possa avere un effetto benefico.

Non dimentichiamo che mangiamo dalle tre alle cinque volte al giorno ed è impossibile pensare che quello che ingeriamo in qualche modo non influenzi il nostro stato di salute.  

 

Vediamo insieme a cosa fare attenzione:

 

Carico glicemico del pasto (ecco un articolo che spiega cos’è il carico glicemico e perché è più importante dell’indice glicemico https://specialistanutrizionista.it/blog/indice-o-carico-glicemico/). Diversi studi hanno dimostrato che individui con acne che consumano diete a basso carico glicemico hanno lesioni da acne ridotte rispetto agli individui con diete ad alto carico glicemico. Infatti,una dieta a basso indice glicemico riduce l’indice di androgeni liberi e aumenta la proteina-3 che lega il fattore di crescita dell’insulina e riduce anche i livelli di IGF-1, che è implicato nella produzione di sebo e nell’occlusione follicolare3.

A volte mi viene detto: “Dott.ssa ho anche eliminato tutto il cioccolato dall’alimentazione”.

Il cioccolato è sempre stato considerato un fattore che può contribuire all’esacerbazione dell’acne, ma esiste una quantità molto limitata di prove a sostegno del suo impatto negativo sulla pelle. Ovviamente, come sempre l’equilibrio è la parola d’ordine per cui tanto dipende anche dalla quantità di cioccolato che si è abituati a consumare.

In alcuni casi, una riduzione del consumo potrebbe avere effetti benefici4.

 

I latticini5. Le proteine ​​del siero sono responsabili degli effetti insulinotropici del latte e possono contribuire allo sviluppo dell’acne. E’ stato dimostrato che la caseina stimola l’IGF-1. Questa potrebbe essere una spiegazione del perché coloro che assumono integratori derivati da siero di latte, pratica comune nei centri fitness e nelle palestre, vedono un inizio o un aggravamento dell’acne.

 

Consumo di acidi grassi omega-3 e acido γ-linoleico6. Gli studi dimostrano che gli individui con acne beneficiano di diete a base di pesce e oli sani, frutta secca e semi aumentando così l’assunzione di acidi grassi omega-3 e omega-6. È stato dimostrato che gli acidi grassi Omega-3 riducono l’IGF-1 e inibiscono anche la sintesi del leucotriene infiammatorio B4, che a sua volta riduce le lesioni infiammatorie dell’acne.  Diversi studi mostrano come l’aggiunta di un integratore di acidi grassi omega-3 o di un integratore di acido γ-linoleico riduca significativamente il numero di lesioni infiammatorie e non infiammatorie.

 

Probiotici7 in individui con acne presentano risultati promettenti; sono necessari ulteriori studi sugli effetti dei probiotici sull’acne per supportare i risultati di questi primi studi. Tuttavia, è stato dimostrato che la somministrazione concomitante di una miscela probiotica, tra cui Lactobacillus casei, Lactobacillus bulgaricus e Streptococcus thermophilus, e acidi grassi, aumenta i livelli ematici di acidi grassi antinfiammatori. Inoltre, sia nell’acne che nella disbiosi intestinale, è stata osservata un’aumentata espressione della sostanza P che può innescare un aumento dei mediatori proinfiammatori come l’interleuchina-6 e il fattore di necrosi tumorale-α, entrambi implicati anche nella patogenesi dell’acne.

 

Le specie reattive dell’ossigeno prodotte dai neutrofili partecipano alla progressione infiammatoria dell’acne. Le specie reattive dell’ossigeno vengono normalmente rimosse da antiossidanti cellulari come la glucosio-6-fosfato deidrogenasi e la catalasi, entrambe presenti in piccole quantità nei pazienti con acne. L’utilizzo di integratori antiossidanti posso essere quindi una buona strategia coadiuvante nel trattamento dell’acne8.

 

Selenio8. Nei pazienti con acne sono stati documentati bassi livelli di selenio nel sangue. Poiché l’attività dell’enzima glutatione perossidasi dipende dal selenio è possibile che anche  l’integrazione di selenio possa essere utile nell’acne.

 

Zinco9. Lo zinco è un micronutriente essenziale per lo sviluppo e il funzionamento della pelle umana. È batteriostatico, inibisce la chemiotassi e riduce la produzione di citochine pro-infiammatorie e del fattore di necrosi tumorale α (TNF-α). Come dico sempre è importantissimo rivolgersi ad un professionista e non utilizzare gli integratori a caso. Anche gli integratori infatti possono dare effetti collaterali. Per esempio, l’integrazione di zinco può portare a diversi effetti collaterali gastrointestinali che possono essere ridotti consumando zinco direttamente dopo i pasti. Inoltre, poiché lo zinco riduce l’assorbimento del rame, è importante associare l’integrazione di zinco a quella di rame.

 

Vitamina A10. La vitamina A è un gruppo di composti che si sono dimostrati efficaci nel trattamento dell’acne. In questo caso è essenziale bilanciare bene l’alimentazione in modo da consentire all’organismo di assorbire questa importante vitamina. Si trova principalmente nelle verdure di colore rosso e nei prodotti di origine animale. E’ una vitamina liposolubile sensibile al calore. Da qui l’importanza di mangiare frutta e verdura cruda in caso di acne.

 

Il grande problema dell’alimentazione è che gli effetti di un’alimentazione scorretta non sono facilmente riconducibili ad essa. Capita spesso di sentirmi dire: “ Non credo sia una questione alimentare. Ho sempre mangiato così e questo problema mi è comparso nel tempo.”

Qualcuno diceva:

“Il cibo che mangi può essere o la più sana e potente forma di medicina o la più lenta forma di veleno”. (Ann Wigmore) 

Ed è proprio così… ed è un veleno potentissimo perchè non ti fa ammalare istantaneamente ma il suo lavoro è lento e profondo.

 

  1. Epidemiology of acne in the general population: the risk of smoking. T Schäfer, A Nienhaus, D Vieluf, J Berger, J Ring
  2. The prevalence of acne in adults 20 years and older. Christin N Collier, Julie C Harper, Jennifer A Cafardi, Wendy C Cantrell, Wenquan Wang, K Wade Foster, Boni E Elewski
  3. A pilot study to determine the short-term effects of a low glycemic load diet on hormonal markers of acne: a nonrandomized, parallel, controlled feeding trial. Robyn Smith, Neil Mann, Henna Mäkeläinen, Jessica Roper, Anna Braue, George Varigos
  4. Double-blind, placebo-controlled study assessing the effect of chocolate consumption in subjects with a history of acne vulgaris.  Caperton C, Block S, Viera M, Keri J, Berman B
  5. Milk consumption and the prepubertal somatotropic axis. Rich-Edwards JW, Ganmaa D, Pollak MN, Nakamoto EK, Kleinman K, Tserendolgor U, Willett WC, Frazier AL
  6. Omega-3 fatty acids and acne. Logan A.
  7. The gut microbiome as a major regulator of the gut-skin axis. Salem I, Ramser A, Isham N, Ghannoum M.
  8. Diet and acne. Bowe WP, Joshi SS, Shalita AR
  9. A double-blind study of the effect of zinc and oxytetracycline in acne vulgaris. Michaëlsson G, Juhlin L, Ljunghall K
  10.  Oral vitamin A in acne vulgaris. Preliminary report.
  11. Kligman AM, Mills OH Jr, Leyden JJ, Gross PR, Allen HB, Rudolph RI

Psoriasi e alimentazione


La psoriasi è una malattia cronica infiammatoria della pelle caratterizzata da un’iperproliferazione e differenziazione anormale dei cheratinociti epidermici e a genesi multifattoriale cui partecipano fattori genetici, ambientali ed immunologici.

E’ una patologia con un forte impatto invalidante sia sul fisico sia sulla psiche, poiché le lesioni tipiche spesso interessano zone visibili come volto e mani.

Circa il 3% della popolazione italiana ne soffre1 e circa il 25-30% è colpito da una forma moderata-grave2.

Insorge prevalentemente in due fasce d’età, uno precoce (20-30 anni) e uno tardivo (50-60 anni)3 con un rapporto uomo:donna pari a 1:14. Tuttavia, esistono casi di psoriasi in età pediatrica.

Recenti studi hanno dimostrato che è una patologia spesso associata ad obesità, diabete, dislipidemia, malattie cardiovascolari o malattie infiammatorie intestinali e in linea generale ad infiammazione sistemica di basso grado.

Pertanto, il ruolo della “dieta” è importantissimo e cruciale in questo genere di patologie.

Vediamo insieme come.

Innanzitutto, è stato dimostrato che l’obesità è associata alla psoriasi per la presenza di uno stato pro-infiammatorio cronico che favorisce diversi disordini metabolici, contribuendo a una ridotta qualità della vita e delle abitudini alimentari dei pazienti5 e che il rischio relativo di psoriasi è direttamente correlato all’indice di massa corporea (BMI)6.

Il tessuto adiposo, infatti, agisce come un tessuto endocrino attivo e dà luogo a uno stato pro-infiammatorio nei pazienti in sovrappeso7.

Per cui è di estrema importanza perdere peso attraverso diete ipocaloriche BILANCIATE che riducono i livelli di insulina, leptina, proteina C-reattiva e proteina 1 chemiotattica e aumentano i livelli di adiponectina, producendo un effetto antinfiammatorio.

Ma non solo!

Diversi studi hanno dimostrato che è la qualità delle sostanze nutritive all’interno della “dieta” di questi pazienti che fa la differenza.

La psoriasi è meno frequente nelle popolazioni giapponesi, norvegesi ed eschimesi la cui dieta è ricca di acidi grassi, come gli omega-3, derivati ​​dall’olio di pesce d’acqua fredda; ciò contrasta con la maggiore frequenza di psoriasi nelle popolazioni che consumano oli vegetali e animali tipici delle diete occidentali, che sono ricche di omega-68.

Gli Omega-3 competono con l’acido arachidonico (AA) a livello delle membrane fosfolipidiche e quindi riducono l’infiammazione indotta dalle prostaglandine.

Sono stati osservati livelli aumentati di acido arachidonico e leucotrieni nelle placche psoriasiche rispetto alle aree della pelle normale9 e le fonti alimentari di acido arachidonico includono prodotti animali, come carne e tuorlo d’uovo.

Per cui, “diete” ricche di prodotti animali peggiorano la patologia.

È stata descritta, inoltre, un’associazione tra la celiachia e diverse malattie autoimmuni tra cui anche la psoriasi. I livelli di anticorpi (anti-gliadina, anti-endomisio e anti-transglutaminasi) sono correlati alla gravità della psoriasi.

Attenzione: c’è da sottolineare il fatto che nella maggior parte di questi pazienti l’enteropatia glutine-sensibile si manifesta con pochi o nessun sintomo gastrointestinale.

Per cui, “diete” prive di glutine danno miglioramenti notevoli sulla patologia10.

L’eccessiva assunzione di zuccheri semplici può aggravare la patologia11.

La soia sembra essere un potenziale agente anti-psoriasi12. Gli isoflavoni sono fitoestrogeni abbondanti nella soia e la genisteina è l’isoflavone principale con una potente attività antinfiammatoria.

La psoriasi può essere innescata o peggiorata dall’assunzione di alcol13.

E infine, tantissimi studi correlano una alterazione della flora intestinale alla patologia.

I probiotici sono microrganismi viventi che conferiscono benefici per la salute all’ospite se somministrati in quantità adeguate14.

Sono microrganismi in grado di modulare il nostro sitema immunitario ed è stato dimostratpo che l’assunzione di Lactobacillus e Bifidobacterium ha effetti benefici sui pazienti affetti da psoriasi.

Le diete ricche di frutta e verdura fresca sono associate a una minore prevalenza di psoriasi e le diete vegane/vegetariane sono state associate a un miglioramento clinico.

Il cibo può essere una potente medicina e nel caso della psoriasi gli effetti sono abbastanza immediati.

Sono “diete” particolari che hanno necessità di essere ben bilanciate per evitare carenze nutrizionali e consiglio sempre di rivolgersi ad un professionista che si occupa di nutrizione clinica.

 

 

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  4. “Psoriasis: epidemiology”, Gudjonsson JE, Elder JT, Clin Dermatol. 2007; 25:535-46. Saraceno R, Mannheimer R, Chimenti S. Regional distribution of psoriasis in Italy. J Eur Acad Dermatol Venereol. 2008; 22:324-9.
  5. Duarte GV, Follador I, Cavalheiro CM, Silva TS, Oliveira Mde F. Psoriasis and obesity: literature review and recommendations for management. An Bras Dermatol. 2010;85(3):355–360.
  6. Naldi L, Chatenoud L, Linder D, et al. Cigarette smoking, body mass index, and stressful life events as risk factors for psoriasis: results from an Italian case-contrel study. J Invest Dermatol 2005; 125(1):61–67.
  7. Hamminga EA, van der Lely AJ, Neumann HA, Thio HB. Chronic inflammation in psoriasis and obesity: implications for therapy. Med Hypotheses, 2006;67(4):768–773.
  8. Søyland E, Funk J, Rajka G, et al. Effect of dietary supplementation with very-long-chain n-3 fatty acids in patients with psoriasis. N Engl J Med. 1993;328(25):1812–1816
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  11. Afifi, L.; Danesh, M.J.; Lee, K.M.; Beroukhim, K.; Farahnik, B.; Ahn, R.S.; Yan, D.; Singh, R.K.; Nakamura, M.; Koo, J.; et al. Dietary behaviors in psoriasis: Patient-reported outcomes from a U.S. National Survey. Dermatol. Ther. 2017, 7, 227–242.
  12. Pazyar, N.; Yaghoobi, R. Soybean: A potential antipsoriasis agent. Jundishapur J. Nat. Pharm. Prod. 2015, 10, e20924.
  13. Svanström, C.; Lonne-Rahm, S.B.; Nordlind, K. Psoriasis and alcohol. Psoriasis (Auckl) 2019, 9, 75–79.
  14. Alesa, D.I.; Alshamrani, H.M.; Alzahrani, Y.A.; Alamssi, D.N.; Alzahrani, N.S.; Almohammadi, M.E. The role of gut microbiome in the pathogenesis of psoriasis and the therapeutic effects of probiotics. J. Family Med. Prim. Care 2019, 8, 3496–3503.

Reflusso gastroesofageo e dieta


Dott.ssa soffro di reflusso!

L’incidenza del reflusso gastroesofageo nella popolazione è molto elevata: si stima che un terzo delle persone nel mondo soffra di reflusso1. I fattori di rischio per lo sviluppo dei sintomi includono l’adiposità centrale, il fumo e la predisposizione genetica2. I sintomi più comuni sono:

bruciore al torace a livello sternale;

rigurgito di liquidi o cibo;

sviluppo di infiammazione esofagea che può portare a disfunzioni della deglutizione3;

tosse;

broncospasmi;

raucedine4.

La terapia farmacologica e le modifiche dello stile di vita sono i trattamenti principali tuttavia negli ultimi anni sempre di più sono gli studi sugli effetti collaterali degli inibitori di pompa5.

E allora non ci rimane che la modifica dello stile di vita con modifiche della dieta, gestione del peso, eliminazione delle sigarette.

La dieta umana è composta da tre principali tipi di macronutrienti, che hanno diverse densità caloriche

e composizione biochimica.

Questi componenti dietetici vengono scomposti per produrre energia e

sostenere il metabolismo cellulare.

I tre macronutrienti includono carboidrati, grassi e proteine.

I carboidrati tradizionalmente costituiscono la maggior parte delle calorie ingerite e fungono da importante fonte di glucosio.

Il grasso è il macronutriente più calorico, con ogni grammo di grasso pari a nove chilocalorie di energia (al contrario alle quattro chilocalorie di energia presenti nei carboidrati

e proteine).

Come i carboidrati, i grassi sono classificati in base alla composizione chimica.

Si distinguono grassi saturi, che non contengono doppi legami carbonio-carbonio, grassi monosaturi, che contengono un doppio legame, e grassi polinsaturi, che contengono più di un doppio legame.

Le proteine ​​sono costituite da aminoacidi e sono le principali fonte di azoto nel corpo.

Sono classificati in base al loro profilo aminoacidico, che determinano se una proteina è completa (contiene tutti gli amminoacidi essenziali che non sono sintetizzati endogenamente dall’organismo) o incompleta.

In caso di reflusso è molto importante avere una “dieta” bilanciata.

Come ho detto in precedenza, i carboidrati hanno una funzione importantissima in un piano alimentare bilanciato per cui anche in caso di reflusso non vanno eliminati tuttavia andrebbero ridotti gli alimenti ricchi di amidi e disaccaridi che vengono solo parzialmente assorbiti dall’intestino tenue e portano a fermentazione, rilascio neuro-ormonale, rilassamento dello sfintere esofageo inferiore e conseguente bruciore di stomaco6.

Numerosi studi inoltre dimostrano che un aumento delle fibre riduce i sintomi da reflusso in maniera significativa7.

Tuttavia, il meccanismo con cui la fibra migliora il bruciore di stomaco non è nota.

Pochi studi hanno esaminato il ruolo delle proteine ​​alimentari in relazione al reflusso tuttavia nei pochi studi presenti viene dimostrato come l’assunzione eccessiva di proteine determini un aumento della pressione sullo sfintere esofageo inferiore8.

Diete ad alto contenuto di grassi, in particolare quelle che includono fritto, si ipotizza che peggiorino i sintomi del reflusso.

La digestione del grasso spesso richiede la secrezione di potenziali irritanti esofagei (cioè sali biliari) e neuro-ormonali, mediatori del tono dello sfintere esofageo inferiore come la colecistochinina.

Prendendo in esame specifici alimenti, il cioccolato, che contiene sia la caffeina che il cacao, induce il rilassamento dello sfintere esofageo inferiore9. Stesso effetto lo otteniamo con la menta piperita10.

Al contrario, i cibi piccanti non sembrano indurre alcun cambiamento fisiologico, ma possono agire come

irritante della mucosa esofagea11.

Ovviamente, oltre ad una dieta bilanciata che preveda l’esclusione anche di alcool e bevande acide e zuccherine, è importante evitare di mangiare a tarda notte e ridurre le porzioni e la quota calorica del pasto.

Anche in questo caso come dico sempre, in un piano alimentare è l’equilibrio che fa la differenza.

Ricordiamoci tuttavia che un piano alimentare bilanciato non può fare miracoli in pochi giorni.

Spesso si pretende di risolvere delle situazioni che ci portiamo addosso da anni in poco tempo come se esistesse una pozione miracolosa che tutto risolve allo schioccare delle dita.

Il corpo è una macchina meravigliosa e anche quando lo trattiamo male ci mette magari mesi o anni per manifestare i sintomi del malessere, che molto spesso ignoriamo.

Quando alla fine non riusciamo più a non vederli cerchiamo di ricorrere ai ripari spesso pensando che basta rimettere benzina buona nella macchina per farla ripartire.

In realtà, il corpo avrà bisogno di tempo per ripulirsi dalla benzina vecchia e dannosa e prendere energia e vigore da quella nuova e bilanciata.

Un piano alimentare, in caso di reflusso, darà i suoi frutti dopo circa due mesi o anche più in alcuni casi.

 

  1. El-Serag HB, Sweet S, Winchester CC, et al. Update on the epidemiology of gastro-oesophageal reflux disease: A systematic review. Gut 2014;63:871-80.
  2. Ness-Jensen E, Hveem K, El-Serag H, et al. Lifestyle intervention in gastroesophageal reflux disease. Clin Gastroenterol Hepatol 2016;14:175.
  3. Spechler SJ. Clinical manifestations and esophageal complications of GERD. Am J Med Sci 2003;326:279-84.
  4. Vela, MF, Richter, JE, Pandolfino, JE, editors. Practical manual of gastroesophageal reflux disease Portland: Ringgold, Inc; 2013.
  5. Vaezi MF, Yang YX, Howden CW. Complications of proton pump inhibitor therapy. Gastroenterology 2017;153:35-48.
  6. Piche T, des Varannes SB, Sacher-Huvelin S, et al. Colonic fermentation influences lower esophageal sphincter function in gastroesophageal reflux disease. Gastroenterology 2003;124:894-902.
  7. Morozov S, Isakov V, Konovalova M. Fiber-enriched diet helps to control symptoms and improves esophageal motility in patients with non-erosive gastroesophageal reflux disease. World J Gastroenterol 2018;24:2291-9.
  8. Benamouzig R, Airinei G. Diet and reflux. J Clin Gastroenterol 2007;41 Suppl 2:S71.
  9. Babka JC, Castell DO. On the genesis of heartburn. The effects of specific foods on the lower esophageal sphincter. Amer J Dig Dis 1973;18:391-7.
  10. Benamouzig R, Airinei G. Diet and reflux. J Clin Gastroenterol 2007;41 Suppl 2:S71.
  11. Yeoh KG, Ho Ky, Guan R, et al. How does chili cause upper gastrointestinal symptoms? A correlation study with esophageal mucosal sensitivity and esophageal motility. J Clin Gastroenterol 1995;21:87-90.

Permeabilità Intestinale: cos’è?


L’intestino ha, oltre la funzione digestiva e di assorbimento degli alimenti, l’importantissima funzione di barriera tra il mondo esterno (cibo) e il mondo interno.
La barriera intestinale è un’entità veramente molto complessa, costituita da più componenti, interattiva e bidirezionale.
E’ un sistema a più strati che ha il compito di distinguere tra microrganismi commensali o patogeni, tollerando i commensali e scatenando una risposta immune contro i patogeni.
Il primo strato è rappresentato dalla microflora intestinale (microrganismi commensali) che inibiscono la colonizzazione di agenti patogeni mediante la produzione di sostanze antimicrobiche.
Lo strato successivo è rappresentato dal muco che impedisce l’adesione batterica sia attraverso la produzione di sostanze antimicrobiche sia attraverso la secrezione di immunoglobuline A.
E infine, al di sotto del muco è presente uno strato di cellule epiteliali chiamate enterociti unite tra loro strettamente da giunzioni chiamate serrate che formano una vera e propria barriera fisica che consente di assorbire i nutrienti ma impedisce alle molecole più grandi e ai microrganismi di passare nel circolo sanguigno.
Le giunzioni serrate sono, quindi, le porte che impediscono ai microbi patogeni e alle molecole più grandi di passare nel circolo sanguigno determinando una risposta immunitaria.
La chiave che apre queste porte è una proteina chiamata zonulina.
Quando, per ragioni che analizzeremo tra poco, nell’intestino viene prodotta zonulina, le giunzioni serrate si aprono rendendo l’intestino poroso e permettendo il passaggio a sostanze e microrganismi che non dovrebbero passare nel sangue e determinando quella che viene chiamata “permeabilità intestinale”.

Le principali cause che determinano il rilascio della zonulina sono:

1)alterazioni della flora intestinale;

2)l’uso prolungato di alcuni farmaci

3)infezioni

4)lo stress

5)diete sbilanciate.

I sintomi che possono far pensare ad una permeabilità intestinale sono:
-diarrea cronica, costipazione o gonfiore;
-infezioni genitourinarie ricorrenti;
-stanchezza;
-problemi della pelle;
-dolori articolari;
-Intolleranza a molteplici alimenti.
Quando, quindi, viene prodotta zonulina le giunzioni serrate del nostro intestino si aprono permettendo il passaggio attraverso i tessuti e la circolazione sistemica di proteine, glutine, microbi e antigeni alimentari, etc, provocando un’infiammazione intestinale che può innescare una serie di malattie autoimmuni come infiammatorie malattie intestinali, celiachia, epatite autoimmune, sclerosi multipla, ovaio policistico, obesità, ecc.
Per cui possiamo dire che l’intestino permeabile è l’anticamera di alcune patologie autoimmuni.
Mantenere un intestino sano è quindi molto importante per mantenere il proprio stato di salute e l’arma più potente che abbiamo per far si che il nostro intestino stia bene è condurre una vita sana ed equilibrata praticando attività fisica, coltivando pensieri positivi, riducendo lo stress e facendo ovviamente una alimentazione quanto più possibile bilanciata.

Cibo ed emozioni


Nel mio precedente articolo: https://specialistanutrizionista.it/blog/microbiota-e-controllo-assunzione-cibo-e-sazieta/ ho affrontato il tema della microflora intestinale e di come i batteri del nostro intestino possano influenzare l’assunzione di cibo.

Come ho scritto tuttavia l’assunzione di cibo non è controllata solo da circuito omeostatico ma anche dal centro di ricompensa e gratificazione che è un circuito presente nel nostro cervello responsabile della motivazione, dell’apprendimento, e delle emozioni positive, in particolare quelle che coinvolgono il piacere come componente fondamentale tra cui anche il piacere del cibo.

E a complicare le cose si aggiunge il fatto che questi due meccanismi, circuito omeostatico e di ricompensa e gratificazione, si influenzano tra loro.

Il cibo è una potente ricompensa naturale e l’interazione tra umore, stato emotivo e comportamenti alimentari è complessa. Gli individui possono regolare le loro emozioni e l’umore anche attraverso le scelte alimentari e le quantità di cibo assunte e viceversa1.

Ovviamente, mi occupo della parte alimentare per cui di come il cibo possa alterare il nostro umore e le nostre emozioni tuttavia capite quanto sia importante avere consapevolezza delle nostre emozioni e quanto il lavoro integrato con la figura di uno psicoterapeuta sia essenziale in alcune situazioni (da qui la mia forte volontà di costruire, insieme alle mie colleghe, un centro integrato di psicologia e nutrizione: www.psi-ko.it).

D’altronde si sa che negli esseri umani, il comportamento alimentare è complesso e può essere influenzato anche dalle emozioni.

Emozioni specifiche come rabbia, paura, tristezza e gioia, così come anche altri stati d’animo possono influenzare la risposta alimentare sia in termini di motivazione a mangiare o di scelta di che tipo di cibo mangiare, sia in termini di masticazione, quantità, metabolismo e digestione2,3.

Ogni persona ha sperimentato almeno una volta nella vita un cambiamento nell’assunzione di cibo in risposta allo stress emotivo (in media il 30% un aumento e del 48% una diminuzione dell’appetito).

Non a caso, gli effetti delle emozioni sull’assunzione di cibo sono ampiamente studiati tuttavia a causa della loro variabilità rimane difficile prevedere come un’emozione può influire sul cibo in un dato gruppo di persone.

Le emozioni possono aumentare l’assunzione di cibo in un gruppo di persone oppure diminuire l’assunzione di cibo un altro gruppo e non solo…emozioni diverse possono aumentare o diminuire il consumo di cibo nello stesso gruppo di individui.

Ad esempio, la noia potrebbe essere associata ad un aumento dell’appetito, ma la tristezza ad una diminuzione4.

Per cui parlare di come le emozioni influenzino l’assunzione di cibo e viceversa è molto complicato perciò torniamo a parlare della componente biologica e alimentare.

Sebbene ci siano molti sistemi neurotrasmettitori all’interno della regione del cervello responsabile del sistema di ricompensa e gratificazione, gli studi sugli effetti gratificanti del cibo si sono concentrati su tre sistemi di segnale, ossia gli oppioidi endogeni5, la dopamina7 e la serotonina.

Vediamo come questi neurotrasmettitori siano in grado di modulare l’assunzione di cibo.

E’ stato visto che una proprietà importante degli oppiacei è quella di rafforzare il comportamento.

Infatti si è visto che l’iniezione sistemica di morfina provoca una maggiore assunzione di cibo nei ratti.

Analizzando il tipo di cibo scelto sotto l’influenza degli oppiacei, si è riscontrato che la morfina stimola l’ingestione di alimenti ricchi di zuccheri e grassi6.

Un altro neurotrasmettitore che sembra essere coinvolto nella risposta di ricompensa del cibo è la dopamina7. Il consumo di cibo, alcuni tipi più e altri meno, porta alla produzione di dopamina, che a sua volta attiva i centri di ricompensa e piacere nel cervello.

Un individuo mangerà ripetutamente un alimento particolare per provare la sensazione positiva di gratificazione8.

Questo tipo di comportamento ripetitivo di assunzione di cibo porta all’attivazione di percorsi di ricompensa al livello del cervello che alla fine prevalgono sugli altri segnali di sazietà e fame. Quindi, l’abitudine di gratificazione attraverso un determinato cibo porta all’eccesso di quel cibo.

È interessante notare che i cibi altamente appetibili attivano le stesse regioni di ricompensa e piacere nel cervello che vengono attivate dalle droghe, suggerendo che alcuni tipi di cibi possano attivare un meccanismo di dipendenza che può portare poi a eccesso di cibo e obesità.

D’altronde, si sa che la dopamina, che attiva direttamente i centri di ricompensa e piacere, influenza sia l’umore che l’assunzione di cibo. Insomma è lei in parte la responsabile del legame tra psicologia e comportamento alimentare.

È stato scoperto, inoltre, che la leptina (ormone responsabile della diminuizione della sensazione della fame e coinvolto nel circuito omeostatico) riduce il rilascio di dopamina durante l’alimentazione, suggerendo che la leptina sopprime la ricompensa indotta dall’alimentazione.

Vedremo successivamente tuttavia come questo segnale venga poi by-passato determinando un aumentato consumo di cibo.

Un terzo neurotrasmettitore che può contribuire alla regolazione dell’appetito è la serotonina. Diverse osservazioni suggeriscono che la serotonina possa essere coinvolta nel controllo dell’assunzione di cibo come segnale di sazietà9.

I livelli di serotonina cerebrale sono influenzati da molti fattori, inclusi i livelli circolanti di triptofano e alcuni macronutrienti10.

Nell’ipotalamo, la serotonina inibisce l’espressione del neuropeptide Y (la cui funzione è quella di inibire le contrazioni intestinali, le secrezioni gastriche e intestinali) riducendo la sensazione della fame9.

Si discute se la serotonina regoli in modo specifico l’assunzione di carboidrati11 e/o l’assunzione di grassi.

Il consumo di cibo quindi è regolato da un sistema complesso di interconnessioni e interferenze tra il sistema omeostatico e il sistema di ricompensa e gratificazione e il tipo di cibo che scegliamo può modulare questa regolazione.

Ripeto tuttavia che può avvenire anche il contrario ossia che le emozioni che proviamo modulino il sistema di ricompensa determinando la propensione ad assumere determinati cibi o aumentare o diminuire la quantità dei cibi assunti. Insomma, davvero tutto un equilibrio dinamico molto delicato.

L’aumento dell’appetito, anche in modo compulsivo che si ha in alcuni casi, in seguito all’assunzione di cibi appetibili oltre all’attivazione del sistema di ricompensa, può essere dovuto anche ad una risposta smussata ai segnali di sazietà.

Ciò può avvenire in diversi modi:

1) una maggiore espressione dei segnali di fame o dei loro recettori

2) una ridotta espressione dei segnali di sazietà e dei loro recettori.

Alcuni dei peptidi della fame come il neuropeptide Y sono sovraregolati dopo un periodo di alimentazione con grassi, in linea con una crescente fame di cibo grasso.

Allo stesso tempo, alcuni segnali di sazietà sono sottoregolati12, riducendo così la risposta di sazietà a un pasto grasso.

Tali cambiamenti nell’espressione del peptide potrebbero spiegare il consumo eccessivo di cibo. Altri segnali di fame come la grelina sono sotto-regolati in risposta all’assunzione di grasso13.

Una dieta ricca di grassi, d’altra parte, sovraregola diversi segnali di sazietà come la leptina e l’ insulina.

Ecco perché quando mangiamo un pasto particolarmente grasso ci saziamo prima ed ecco perché le diete chetogeniche (che puntano su un aumento dei cibi grassi nell’alimentazione) possono determinare una perdita di peso importante.

Tuttavia, poiché un regime alimentare appetibile porta a mangiare troppo nonostante il cambiamento nei segnali di appetito per limitare l’assunzione di cibo, ci deve essere una risposta smussata ai segnali di sazietà o l’assunzione di cibo è stimolata da altri fattori che agiscono all’interno del sistema di ricompensa.

Negli individui obesi sono state osservate concentrazioni sieriche elevate di leptina.

C’era anche un’incapacità della leptina di inibire l’assunzione di cibo in tali individui, una fenomenale “resistenza alla leptina14.

Si è scoperto che una dieta ricca di grassi causava un aumento sostenuto della leptina circolante nei topi e che i livelli di leptina riflettevano la quantità di grasso nel corpo.

Tuttavia, nonostante l’aumento dei livelli di leptina, gli animali con una dieta ricca di grassi sono diventati obesi, limitando l’azione della leptina.

Inoltre si è visto che in questi individui la leptina ha una ridotta capacità di oltrepassare la barriera emato-encefalica impedendo di svolgere la sua funzione inibente la fame.

Anche per l’isulina succede la stessa cosa. Il passaggio dell’insulina nel cervello sembra essere un evento chiave nella sazietà indotta da insulina. Ci sono regioni specifiche nel cervello, ad es. l’ipotalamo e il retroencefalo, dove avviene la penetrazione dell’insulina15.

Che una dieta appetibile possa ridurre la penetrazione di insulina attraverso la barriera ematoencefalica è stato dimostrato in animali alimentati con una dieta ad alto contenuto di grassi per diverse settimane.

Ciò potrebbe contribuire allo sviluppo dell’obesità negli individui che seguono una dieta ricca di grassi.

Si potrebbe ipotizzare che una dieta ricca di grassi provochi una resistenza periferica all’insulina, che trasferisce il glucosio al cervello.

A poco a poco la barriera emato-encefalica diventa resistente alla penetrazione dell’insulina e di conseguenza l’effetto saziante dell’insulina viene perso.

Potrei scrivere per ore su questo argomento. In questo articolo ho cercato di semplificare tuttavia ogni individuo è un meraviglioso sistema talmente complesso che è difficile descrivere a parole ogni singolo meccanismo e che interagisce e interferisce con gli altri meccanismi e che regolano il corpo umano e il comportamento alimentare.

 

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Microbiota e controllo assunzione cibo e sazietà


Si parla tanto di microbiota e oramai sappiamo che i microbi della nostra flora intestinale influenzano il metabolismo, l’immunità e persino il comportamento, anche quello alimentare.

La fame è regolata da un meccanismo molto complesso, non ancora chiaro in tutti i suoi aspetti, che coinvolge numerosi mediatori di cui i più importanti sono il peptide YY, la leptina, la grelina e l’insulina.

Il peptide YY è un ormone prodotto dalle cellule intestinali dell’ileo e del colon e la sua funzione è quella di inibire le contrazioni intestinali, le secrezioni gastriche e intestinali riducendo la sensazione della fame.

 

La grelina viene prodotta dallo stomaco in teoria quando lo stomaco è vuoto cioè quando il soggetto avverte la sensazione della fame. Infatti è lo stimolo che attiva il centro della fame e ci spinge ad assumere cibo. La concentrazione di grelina diminuisce dopo i pasti, al dilatarsi delle pareti dello stomaco ed in funzione dell’arrivo di alcuni nutrienti specifici.

 

La leptina viene secreta dal tessuto adiposo e legandosi a recettori localizzati nel nostro cervello diminuisce la sensazione della fame. I livelli di leptina si innalzano in seguito all’assunzione di cibo e diminuiscono nel digiuno protratto.

 

L’insulina viene prodotta dalle cellule del pancreas in seguito all’aumento del glucosio nel sangue. Viene attivata principalmente dai carboidrati e zuccheri semplici e ha una funzione paragonabile alla leptina.

 

In questo articolo mi soffermo solo sul meccanismo omeostatico della fame e sulla funzione del microbiota nel regolare questi ormoni. Tuttavia, l’assunzione di cibo è influenzata anche dal centro di ricompensa e gratificazione che è un circuito presente nel nostro cervello responsabile della motivazione, dell’apprendimento, e delle emozioni positive, in particolare quelle che coinvolgono il piacere come componente fondamentale tra cui anche il piacere del cibo.

 

Capite quanto sia complesso l’atto del mangiare?!!

 

Ma torniamo a noi…

 

Uno dei ruoli del microbiota è quello di produrre, attraverso la fermentazione della fibra alimentare solubile, gli acidi grassi a catena corta o SCFA come l’acetato, il propionato e il butirrato, metaboliti importanti nel mantenimento dell’equilibrio intestinale1.

Oltre all’importante funzione sul benessere del nostro intestino, è stato dimostrato che gli SCFA influenzano anche il meccanismo omeostatico della fame perché stimolano il rilascio del peptide YY2 che abbiamo visto precedentemente essere un ormone responsabile della riduzione della fame.

Il microbiota sembra anche essere responsabile del rilascio di leptina infatti è stato visto che l’utilizzo di antibiotici nei ratti porta ad un drastico calo (circa 38%) dei livelli circolanti di leptina (ricordo che la leptina diminuisce la fame).

Inoltre, è stato dimostrato che ci sono batteri come i Bifidobacterium e Lactobacillus la cui presenza aumenta i livelli di leptina ed altri come Clostridium, Bacteroides e Prevotella la cui presenza è negativamente correlata con la presenza di quest’ormone3.

I Bifidobacterium e Lactobacillus sono stati dimostrati anche essere responsabili della diminuzione della secrezione di grelina3 (ormone che attiva il centro della fame e ci spinge ad assumere cibo).

Qui ho citato solo i batteri più conosciuti e ho cercato di semplificare enormemente il complesso meccanismo di intercomunicazione che c’è tra noi e i batteri della nostra flora intestinale tuttavia tantissimi altri batteri della nostra flora intestinale sono correlati positivamente o negativamente con gli ormoni che regolano il circuito omeostatico della fame.

E sapete qual è uno tra i più potenti modulatori della composizione e della funzione del microbiota?

La “dieta” intesa come regime alimentare. In un rapporto di scambio, i nutrienti che noi assumiamo modulano la composizione della nostra flora intestinale e i microbi intestinali a loro volta influenzano l’assorbimento, il metabolismo e lo stoccaggio dei nutrienti ingeriti, con effetti potenzialmente profondi sulla fisiologia dell’ospite4.

La cosa straordinaria è che ciascun nutriente ha la capacità di “rimodellare” la nostra flora intestinale.

Tra i macronutrienti, gli effetti meglio caratterizzati sono quelli dei carboidrati dietetici.

Carboidrati semplici come il saccarosio, sia da solo che come parte di una dieta ricca di grassi e zuccheri in stile occidentale, causano un rapido rimodellamento del microbiota e disfunzione metabolica negli animali da esperimento5,6.

I carboidrati non sono completamente digeribili dagli esseri umani e i microbi intestinali usano i carboidrati indigeribili come fonte di energia primaria. Il termine “fibra” è comunemente usato per descrivere questi carboidrati indigeribili, sebbene questa designazione sia problematica dato che alcune fibre non sono utilizzate dai microbi intestinali (come la cellulosa), mentre altri carboidrati facilmente fermentati non rientrano nella definizione di fibra (come amidi resistenti).

La restrizione di carboidrati complessi utilizzabili dalla nostra flora intestinale determina una riduzione della produzione di acidi grassi a catena corta o SCFA che abbiamo visto essere importanti nella riduzione della fame.

L’aumento, invece, dei grassi alimentari altera in modo sostanziale la composizione del microbiota con una diminuzione in Bacteroidetes e aumento in Firmicutes e Proteobacteria.

Ovviamente il tipo di grasso assunto modifica in maniera differente la nostra flora intestinale portando a conseguenze diverse sulla nostra salute. E’ stato dimostrato, infatti che i topi alimentati con una dieta ricca di grassi saturi a catena lunga derivati ​​principalmente da prodotti a base di carne hanno mostrato una maggiore resistenza all’insulina e infiammazione del tessuto adiposo rispetto a quelli nutriti con una dieta ricca di olio di pesce.

Anche le proteine ​ modulano la composizione microbica e la produzione di metaboliti perché forniscono ai microbi intestinali carbonio e azoto essenziali. Inoltre, gli SCFA derivino principalmente dalla fermentazione dei carboidrati tuttavia sono anche sottoprodotti del metabolismo batterico degli amminoacidi.

Anche i micronutrienti hanno un impatto reciproco sul benessere della nostra flora intestinale e del nostro organismo infatti il microbiota intestinale regola sia la sintesi che la produzione metabolica di vari micronutrienti. Le vitamine del gruppo B, ad esempio, possono essere sintetizzate da più di 100 specie batteriche e l’analisi dei percorsi di sintesi coinvolti suggerisce che i batteri scambiano in modo cooperativo le vitamine del gruppo B per garantire la sopravvivenza7.

La relazione tra le vitamine e il microbiota sembra essere bidirezionale perché diverse vitamine fornite dall’ospite modellano la composizione microbica.

Come le vitamine, i metalli sono cofattori necessari per numerosi processi fisiologici dei mammiferi e dei batteri e possono alterare drasticamente il microbiota.

La carenza di zinco, che è un forte fattore di rischio per la diarrea infantile potenzialmente fatale nei paesi in via di sviluppo, aumenta le popolazioni di batteri patogeni8.

Il ferro è un micronutriente essenziale per la crescita dei patogeni e limitare l’assunzione di ferro è una forma efficace di immunità nutrizionale contro l’insediamento dei patogeni.

Il latte materno umano trasmette la lattoferrina, una glicoproteina legante il ferro, per proteggere l’intestino del neonato non sviluppato dalla colonizzazione dei patogeni e l’integrazione di ferro nei neonati può aumentare la crescita dei patogeni e l’infiammazione intestinale9.

Dati recenti suggeriscono che gli effetti ipertensivi delle diete ad alto contenuto di sale negli animali da esperimento e nell’uomo sono mediati da livelli ridotti di Lactobacillus e successivi aumenti delle cellule proinfiammatorie10.

L’impatto degli additivi alimentari sul microbiota intestinale e sull’omeostasi intestinale rappresenta un’altra area poco studiata con potenziali implicazioni per la salute umana. Sebbene le conseguenze microbiche e sulla salute delle diete occidentali siano tipicamente attribuite alla composizione dei macronutrienti, diversi studi suggeriscono che gli effetti dannosi possono essere causati dagli additivi alimentari.

Vorrei sottolineare due cose in merito a quanto scritto:

  • La relazione tra noi e la nostra flora intestinale è molto complessa e influenza la nostra salute in toto. E’ molto complesso spiegare in modo semplice tale relazione per cui ho cercato di semplificare quanto più possibile.
  • Capite quanto le Kilocalorie non servano? E’ la composizione degli alimenti e la qualità della nostra alimentazione che consente il “modellamento” della nostra flora intestinale!

 

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La fermentazione


La fermentazione è una tecnica di conservazione che esiste da milioni di anni1 e che al giorno di oggi ha visto una crescente popolarità che ha portato a incomprensioni e domande, prima fra tutte quale è la definizione di cibo fermentato.

La lunga durata di conservazione dei cibi fermentati e la rimozione di alcuni composti nocivi durante il processo di fermentazione serve ancora nelle regioni del mondo che hanno una bassa sicurezza alimentare e uno scarso accesso alla refrigerazione, all’elettricità e all’acqua pulita. Tuttavia, anche nelle società in cui l’igiene e la conservazione non sono un problema, i cibi fermentati costituiscono una parte importante della dieta dell’essere umano.

Si stima, infatti che attualmente siano prodotte più di 5.000 varietà di cibi e bevande fermentati.

Ma qual è la definizione di cibo fermentato?

I cibi fermentati sono “cibi realizzati attraverso la crescita di microrganismi voluti e che determina la modificazione enzimatica delle sue componenti “2

La definizione include cibi e bevande prodotti dalla fermentazione ma che potrebbero non avere microrganismi viventi al momento del consumo.

Alimenti fermentati, come il pane, vengono cotti dopo la fermentazione, uccidendo i microrganismi di fermentazione e la produzione di alcuni alimenti fermentati (ad esempio, la maggior parte birre e vini) include alcuni passaggi che rimuovono i microrganismi vivi dai prodotti finiti.

I principali microrganismi utilizzati nei processi di fermentazione sono batteri lattici (LAB), batteri acetici (AAB), bacilli o altri batteri, lieviti o funghi filamentosi. I batteri lattici sono un gruppo di batteri Gram-positivi e sono tra i microrganismi più importanti e ampiamente utilizzati nella fermentazione dei prodotti lattiero-caseari, della carne, dei cereali e dei vegetali3.

Oltre ai batteri lattici, alcuni alimenti fermentati come il Natto o l’aceto sono prodotti con specie particolari di Bacillus e batteri acetici, rispettivamente.

Per il pane, vino, birra o alcune fermentazioni alcoliche generalmente vengono utilizzati funghi, lieviti produttori di etanolo, della specie dei Saccharomyces.

Penicillium, Aspergillus e Rhizopus sono usati per i latticini, la carne e prodotti a base di soia.

Se fatti correttamente da ingredienti sicuri e sani, i cibi fermentati raramente sono pericolosi4. Ciò nonostante, alcuni formaggi e cibi fermentati a bassa acidità possono essere contaminati da Listeria

monocytogenes, Salmonella, Clostridium botulinum o altri patogeni di origine alimentare5,6.

L’alcol (ad esempio, vino, birra e liquori) e il sale (ad esempio, salsa di soia o kimchi) sono costituenti intrinseci di alcuni alimenti fermentati e dovrebbero essere consumati con moderazione.

Istamina, tiramina e altre ammine biogene sono formate da alcuni batteri lattici tramite la decarbossilazione degli amminoacidi durante la fermentazione di formaggi, carni, verdure, semi di soia e vino7. Queste ammine, se i nostri sistemi di detossicazione non sono molto efficienti, possono causare effetti come l’emicrania8.

Nonostante queste contrindicazioni, è una tecnica che può migliorare le proprietà degli alimenti trasformando materie prime insipide in prodotti nutrienti e appetibili. Inoltre, può anche migliorare la sicurezza alimentare e la qualità nutritiva rimuovendo sostanze tossiche o composti anti nutritivi dalle materie prime. Un esempio è la rimozione di composti tossici durante la fermentazione di cereali, legumi e tuberi.

Durante le fermentazioni a lievitazione naturale, alcuni batteri lattici facilitano la degradazione dei fitati, composti presenti nei cereali che riducono l’assorbimento nel tratto gastrointestinale di calcio, magnesio e zinco9.

Inoltre, la fermentazione riduce la concentrazione di monosaccaridi e disaccaridi ipercalorici come glucosio, saccarosio e fruttosio presenti nel latte, carne e verdure. La riduzione degli zuccheri riduce l’indice glicemico10,11 e migliora la tollerabilità alimentare. Nei cibi contenenti polifenoli, la conversione di composti fenolici da parte dei lattobacilli11 aumenta la biodisponibilità di flavonoidi, tannini e altri composti bioattivi12,13.

Insomma, i benefici sono tanti e seppur i microrganismi contenuti nei cibi fermentati non sopravvivono a lungo nell’intestino, la colonizzazione a breve termine è sufficiente per sintetizzare composti bioattivi e inibire i patogeni intestinali.

Secondo alcuni studi, gli alimenti fermentati possono influenzare la composizione del microbiota intestinale14 e se consumati durante la prima infanzia riducono il rischio di dermatiti atopiche e allergie15.

Insomma, come abbiamo sempre detto una alimentazione sana è caratterizzata essenzialmente da equilibrio e inserire nella nostra alimentazione in maniera equilibrata i prodotti fermentati non può che fare bene alla nostra salute. La cosa importante è che siano prodotti sicuri.

 

1.Arranz-Otaegui, A., Gonzalez Carretero, L., Ramsey, M. N., Fuller, D. Q. & Richter, T. Archaeobotanical evidence reveals the origins of bread 14,400 years ago in northeastern Jordan. Proc. Natl Acad. Sci. USA 115, 7925–7930 (2018)

2.Health benefits of fermented foods: microbiota and beyond.

Marco ML, Heeney D, Binda S, Cifelli CJ, Cotter PD, Foligné B, Gänzle M, Kort R, Pasin G, Pihlanto A, Smid EJ, Hutkins R

Curr Opin Biotechnol. 2017 Apr; 44():94-102.

3.Gänzle, M. G. Lactic metabolism revisited: metabolism of lactic acid bacteria in food fermentations and food spoilage. Curr. Opin. Food Sci. 2, 106–117 (2015)

4.Arranz-Otaegui, A., Gonzalez Carretero, L., Ramsey, M. N., Fuller, D. Q. & Richter, T. Archaeobotanical evidence reveals the origins of bread 14,400 years ago in northeastern Jordan. Proc. Natl Acad. Sci. USA 115, 7925–7930 (2018)

5.O’Connor, P. M., Ross, R. P., Hill, C. & Cotter, P. D. Antimicrobial antagonists against food pathogens: a bacteriocin perspective. Curr. Opin. Food Sci. 2, 51–57 (2015).

6. Nout, M. J. R. Fermented foods and food safety. Food Res. Int. 27, 291–298 (1994)

7.Spano, G. et al. Biogenic amines in fermented foods. Eur. J. Clin. Nutr. 64 (Suppl. 3), S95–S100 (2010).

8.Alvarez, M. A. & Moreno-Arribas, M. V. The problem of biogenic amines in fermented foods and the use of potential biogenic amine-degrading microorganisms as a solution. Trends Food Sci. Technol. 39, 146–155 (2014).

9.Sharma, N. et al. Phytase producing lactic acid bacteria: Cell factories for enhancing micronutrient bioavailability of phytate rich foods. Trends Food Sci. Technol. 96, 1–12 (2020).

10.Capurso, A. & Capurso, C. The Mediterranean way: why elderly people should eat wholewheat sourdough bread-a little known component of the Mediterranean diet and healthy food for elderly adults. Aging Clin. Exp. Res. 32, 1–5 (2020).

11.Wolever, T. M. Yogurt is a low-glycemic index food. J. Nutr. 147, 1462s–1467s (2017).

12.Gaur, G. et al. Genetic determinants of hydroxycinnamic acid metabolism in heterofermentative lactobacilli. Appl. Environ. Microbiol. 86, e02461-19 (2020).

13.Septembre-Malaterre, A., Remize, F. & Poucheret, P. Fruits and vegetables, as a source of nutritional compounds and phytochemicals: Changes in bioactive compounds during lactic fermentation. Food Res. Intern. 104, 86–99 (2018).

14.Sun, B. et al. Evolution of phenolic composition of red wine during vinification and storage and its contribution to wine sensory properties and antioxidant activity. J. Agric. Food Chem. 59, 6550–6557 (2011).

15.Falony, G. et al. Population-level analysis of gut microbiome variation. Science 352, 560–564 (2016).

16. Hesselmar, B., Hicke-Roberts, A. & Wennergren, G. Allergy in children in hand versus machine dishwashing. Pediatrics 135, e590–e597 (2015

Indice glicemico e Temperatura


Nel mio precedente articolo https://specialistanutrizionista.it/blog/indice-o-carico-glicemico/ vi avevo parlato della differenza tra indice glicemico e carico glicemico.

Vi avevo detto che l’indice glicemico rappresenta la capacità di un determinato alimento di innalzare la glicemia, ossia la quantità di glucosio nel sangue, dopo il pasto rispetto a uno standard di riferimento che è il glucosio puro oppure il pane bianco.
L’indice è espresso con una scala da 0 a 100.
Il glucosio funge da punto di riferimento e ha un indice glicemico pari a 100.
La scala di valori dell’indice glicemico viene suddivisa in:
indice glicemico basso: da 0 a 55
indice glicemico intermedio: da 56 a 69
indice glicemico elevato: da 70 in su.
E vi avevo fatto presente come non sia possibile basare la nostra alimentazione solo sull’indice glicemico di un alimento perché quest’ultimo dipende da vari fattori.
Rileggendo l’articolo e grazie all’intervento prezioso di chi mi segue sulla pagina Facebook, mi sono accorta di averne elencati molti ma di essermene dimenticata uno essenziale ossia la temperatura.
L’alta temperatura infatti innalza l’indice glicemico di un alimento. Vediamo perché.
La maggior parte degli zuccheri che l’uomo consuma, in genere o almeno lo si spera, sono zuccheri complessi appartenenti alla famiglia delle amilacee chiamate così appunto perché composti essenzialmente da amido.
Quando viene sottoposto ad alte temperatura la struttura dell’amido si modifica, gelatinizzandosi e aumentando l’indice glicemico dell’alimento.
Ecco perché più cuociamo un alimento, più la temperatura si alza e più il suo indice glicemico sarà alto.
Quando l’alimento si raffredda, l’amido si modifica nuovamente e per un processo che viene chiamato retrogradazione ritorna in parte alla struttura molecolare precedente. Dico in parte perché ovviamente il processo di retrogradazione non provoca una reversibilità totale del processo di gelificazione.
In ogni caso, il raffreddamento determina una parziale riduzione dell’indice glicemico.
In altre parole cosa significa?
La pasta al dente avrà un indice glicemico più basso della pasta cotta per più tempo. La pasta fredda avrà un indice glicemico ancora più basso della pasta calda.
Una patata cotta e lasciata raffreddare avrà un indice glicemico più basso della patata bollente.
Il pane raffermo o tostato avrà un indice glicemico inferiore rispetto al pane fresco e magari caldo.
I popcorn hanno un indice glicemico molto più alto del mais a chicco.
La cottura al microonde aumenta il processo di gelificazione dell’amido a causa delle alte temperature.
Questo succede anche con le pentole a pressione.
La conservazione a basse temperature (in frigo) agevola il processo di retrogradazione. Per cui un piatto di fagioli lasciati in frigorifero avrà un indice glicemico inferiore rispetto ad un piatto di fagioli appena cotto.
Mi soffermo su un altro processo industriale che alza notevolmente l’indice glicemico degli alimenti che è la soffiatura dei cereali.
Molti miei pazienti vengono nel mio studio dicendomi: “Dott.ssa ho eliminato completamente il pane. L’ho sostituito con le gallette di riso o mais etc..”.
Purtroppo si è diffusa l’idea, anche a causa del marketing pubblicitario, che le gallette siano dietetiche.
In realtà le gallette ma in generale tutti i cereali soffiati hanno un indice glicemico molto alto.

La soffiatura dei cereali avviene ad altissime temperature e questo aumenta enormemente il processo di gelificazione dell’amido. Inoltre, questo processo impoverisce il cereale di vitamine, minerali etc.

Insomma quello che resta è solo la parte esterna del cereale con un altissimo indice glicemico e con valore nutrizionale pari praticamente a quasi zero.
Come dicevamo non bisogna demonizzare alimenti con alto indice glicemico dalle interessanti qualità nutritive escludendoli dalla dieta. Semplicemente si possono mettere in atto dei piccoli accorgimenti per abbassare il carico glicemico del pasto e uno di questi accorgimenti è mangiare i piatti non dico freddi ma almeno non bollenti.
Questo ci fa comprendere anche quanto le chilocalorie sono importanti ma non troppo. Lo stesso alimento con le stesse chilocalorie avrà un impatto sul corpo e sulla glicemia completamente diverso a seconda della sua temperatura e di come viene combinato con altri alimenti che abbassano il suo indice glicemico o meglio il carico glicemico dell’intero pasto.

Indice o carico glicemico


Si parla sempre più spesso di indice glicemico degli alimenti.

Ma è perché è così importante per la nostra salute?
E’ stato dimostrato che mangiare alimenti con indice glicemico basso aiuta a tenere la glicemia sotto controllo e a prevenire patologie importanti come il diabete, l’obesità, le malattie cardiovascolari [1] e anche il cancro [2].
L’indice glicemico o GI rappresenta la capacità di un determinato alimento di innalzare la glicemia, ossia la quantità di glucosio nel sangue, dopo il pasto rispetto a uno standard di riferimento che è il glucosio puro oppure il pane bianco.

L’indice è espresso con una scala da 0 a 100.

Il glucosio funge da punto di riferimento e ha un indice glicemico pari a 100.
La scala di valori dell’indice glicemico viene suddivisa in:
indice glicemico basso: da 0 a 55
indice glicemico intermedio: da 56 a 69
indice glicemico elevato: da 70 in su.
Le diete a basso indice glicemico oltre ad avere benefici nei soggetti con diabete sia di tipo 1 sia di tipo 2, sono particolarmente indicate per il controllo del peso perché aiutano a ritardare la fame [3]. Tanto che anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda diete basate su una buona quantità di alimenti a basso indice glicemico per prevenire le più comuni malattie del benessere, come la malattia coronarica, il diabete e l’obesità (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_1000_listaFile_itemName_1_file.pdf).
Sul web si possono trovare tabelle dell’indice glicemico degli alimenti più o meno attendibili.
Ma non possiamo basare la nostra alimentazione solo sull’indice glicemico di un alimento perché quest’ultimo dipende da vari fattori come:
1. la varietà (per esempio varietà differenti di uno stesso frutto hanno indice glicemico diverso);
2. tempo di raccolta (un frutto acerbo ha un indice glicemico diverso da un frutto molto maturo);
3. zona geografica di produzione;
4. modalità di produzione;
5. il contenuto in fibre e in grassi (Grassi e fibre tendono ad abbassare l’indice glicemico di un alimento);
6. la conservazione e l’essiccazione;
7. il metodo di cottura (per esempio bollire o cuocere al forno varia l’indice glicemico);
8. la durata della cottura (per esempio pasta al dente o leggermente scotta);
9. gli altri ingredienti della ricetta (l’abbinamento di alimenti con indice glicemico uguale o diverso modifica l’indice glicemico del pasto totale).
Inoltre, nonostante l’indice glicemico per alcuni alimenti sia lo stesso, la percentuale di carboidrati può non esserlo. E così due alimenti con indice glicemico uguale possono far innalzare la glicemia in modo differente a parità di quantità.
E’ per questo motivo che è molto importante considerare anche un altro parametro, detto carico glicemico (CG), che tenga conto non solo della qualità (indice Glicemico) ma anche e della quantità di carboidrati presenti nell’alimento.
Quindi:
CARICO GLICEMICO = (Indice glicemico x g carboidrati) / 100
La scala di valori del carico glicemico viene suddivisa in:
Fino a 10 carico glicemico BASSO.
Da 11 a 19  carico glicemico MODERATO.
Da 20 in su carico glicemico ALTO
In conclusione, quello che più conta è una buona educazione alimentare. Non bisogna demonizzare, quindi, alimenti con alto indice glicemico dalle interessanti qualità nutritive escludendoli dalla dieta.

Rispettando contemporaneamente l’indice e il carico glicemico, cioè ottenere un basso carico glicemico da una fonte a basso indice glicemico, si riescono ad ottenere il massimo dei vantaggi.
Mangiare in maniera salutare e in piccole quantità è sicuramente utile al mantenimento dello stato di salute e di benessere.

1. Feliciano Pereira, P., C. das Gracas de Almeida, and C. Alfenas Rde, Glycemic index role on visceral obesity, subclinical inflammation and associated chronic diseases. Nutr Hosp, 2014. 30(2): p. 237-43.
2. Turati, F., et al., High glycemic index and glycemic load are associated with moderately increased cancer risk. Mol Nutr Food Res, 2015.
3. Juanola-Falgarona, M., et al., Effect of the glycemic index of the diet on weight loss, modulation of satiety, inflammation, and other metabolic risk factors: a randomized controlled trial. Am J Clin Nutr, 2014. 100(1): p. 27-35.

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